Alla
voce “invidia” del vocabolario
della lingua italiana troviamo che essa significa: «Sentimento
di rancore e di astio per la fortuna, la felicità o le qualità
altrui, spesso unito al desiderio che tutto ciò si trasformi
in male». L’etimo indica la derivazione dal latino invidus
cioè “invido” che, a sua volta, è composto
da “guardare” (videre) e “contro” (in) quindi
“guardare contro”.
Questa analisi letterale ci aiuta ad inaugurare questo nuovo e utile
approfondimento sulle passioni che affliggono l'uomo, infatti, dall'etimologia
appena descritta, apprendiamo che l'invidia si manifesta in primo
luogo attraverso il modo di guardare, che è ostile (il prefisso
“in” è comune a molte parole che indicano negazione
e avversità: invalido, incurante, indisposto, ecc.).
Riferendoci alle parole di Gesù: «Gli
occhi sono lo specchio dell'anima», veniamo a conoscenza
del fatto che dallo sguardo possiamo intuire i moti dell'animo. L’invidia
si palesa quindi con sguardi malevoli (e con molto altro, come descriveremo
tra poco), e se gli occhi sono riflesso della nostra interiorità,
diventa indispensabile conoscere a fondo questa affezione psichica;
è in gioco la nostra salute, quella che più conta cioè
quella spirituale!
La gravità di questo male è testimoniata da alcuni riferimenti
biblici molto specifici.
Nell'episodio di Caino e Abele, dall'invidia nasce l'odio che sfocia
nell'assassinio (Gn 4, 3-8) ed è ancora l’invidia che
spinge i fratelli ad attentare alla vita di Giuseppe (Gn 37).
Nei Vangeli di Marco e Matteo, nel racconto della passione, si dice
chiaramente che Gesù fu ucciso per l'invidia dei sacerdoti:
«Pilato sapeva benissimo che i sommi sacerdoti glielo avevano
consegnato per invidia». (Mc 15, 10). L’assassinio più
grave di tutta l'umanità ebbe dunque come movente l'invidia.
La focalizzazione dei pensieri dell’uomo sulla sola materialità,
traccia l’ultimo rigo dell’excursus drammatico di questa
passione che giunge ai giorni nostri con un’immutata carica
di devastazione.
Soldi, successo, bellezza, figli, moglie (marito), fortuna, auto,
casa, simpatia sono ciò che l'uomo più invidia. Qualità
brillanti e superficiali che attirano l'attenzione dell'invidioso,
il quale ha paura che gli altri, a causa delle loro doti o dei loro
averi, siano applauditi, abbiano successo e si impongano nella società
mentre lui resta nell'ombra.
Abbiamo visto nel capitolo dedicato all'avarizia
che l’avaro maschera la sua scoria rivestendola di parsimonia
e oculatezza nello spendere, e dietro questi paraventi dà grande
sfoggio alla sua pecca. L’invidioso invece, non avendo scappatoie
per far accettare agli altri il suo cancro, lo cova nel segreto. Esso
sta nelle profondità di tenebra del cuore umano, quelle che
apprestiamo alla conservazione del peggio di noi stessi, terreno di
coltura di veleni che possono ucciderci ma che non ci decidiamo a
smaltire o nemmeno riusciamo a riconoscere.
Questa immagine è ben raffigurata da Giotto, il famoso
pittore del Trecento, in una delle sue opere (riportata qui a lato).
In essa si vede di profilo un individuo dalla cui bocca esce la serpe
dell’invidia, la quale gli si rivolta contro mordendogli il
viso e iniettandogli quello stesso siero mortale che voleva indirizzare
ad altri.
Vergognoso a dichiararsi ma tenace nell'intento negativo, l'invidioso
scalza l'amore per fare posto all'odio e alla calunnia. Qui persino
il codice penale ha titolo di intervento. La diffamazione, esternazione
diretta dell'invidia, in diverse fattispecie è punita con la
reclusione fino a quattro anni ovvero con una multa fino a duemila
euro circa (595 c.p. e segg.). La legge umana però non la considera
mostruosa quanto e più dell'omicidio, poiché peggio
dell'uccisione del corpo è distruggere la pace dell'anima,
vilipendere l'onesto, sfogare nella vigliaccheria della menzogna i
più bassi istinti e godere nell'avvelenare l'esistenza di una
famiglia, creando un ambiente di sospetto e di disistima. Egli accusa
e giudica gli altri senza prove, ingrandisce i difetti e applica ai
più piccoli sbagli la rimarcazione che si addice agli errori
più clamorosi.
Il suo linguaggio è pieno di fiele verso chiunque, a qualsiasi
ceto sociale appartenga, anche se si direbbe un “privilegiato”
(e per questo avrebbe meno motivi di invidiare chicchessia). Ciò
non vale per il malato di invidia perché sa trovare un rivale
anche tra i più sofferenti.
Facciamo l'esempio di un uomo d'affari o di una madre di famiglia
benestante, essi vivono nella agiatezza, sono persone istruite insomma
il mondo (cieco e superficiale) le definirebbe “realizzate”.
Il germe però rode, essi diranno: «La nobiltà
obbliga, quale peso e costrizione mi impone il mio status! La mia
domestica, nonostante le apparenze, se la cava meglio di me, ha una
serenità nel vivere, delle esigenze così modeste e così
pochi pensieri che non può che essere felice. Io invece lotto
e arranco ogni giorno, mentre lei “se la spassa”».
Nella sua posizione dominante gode nel negarle un migliore trattamento
economico e la umilia perché non tollera il suo presunto privilegio.
Inutile stigmatizzare il rapporto opposto, cioè quello tra
un povero che prova risentimento quando vede il lusso, mentre lui
non ha ancora il necessario; è purtroppo così comune
che non ritengo di dover entrare nei particolari.
Vorrei ora aprire un'ampia parentesi dedicata alla gelosia che così
spesso si accompagna all'invidia. I Latini e i Greci infatti le confusero
in un unico vocabolo ma tra le due patologie ci sono comunanze e distinzioni
che occorre chiarire.
Un medico francese del secolo XIX, tale Vitet, le raffronta in maniera
eccellente, vi riporto le sue parole: «L'invidia è una
disposizione abituale a vedere con dolore gli altri godere dei beni
e dei vantaggi che noi non possediamo, accompagnata dal desiderio
continuo di vederli spogliati, per gioirne.
La gelosia invece è il voler possedere noi soli, accompagnato
da inquietudine ed avversione più o meno violenta contro coloro
che sospettiamo pretendenti al medesimo possesso, unito a continui
sforzi per impedire loro di giungervi».
In pratica siamo gelosi del nostro bene e invidioso dell'altrui.
Aggiungo che la gelosia dipende solitamente da rivalità in
amicizia o in amore invece l'invidia è diretta al grado, agli
onori, alle ricchezze, all'ingegno.
Mentre consultavo un libro molto valido quale fonte di insegnamenti
in questo genere di argomenti, ho ravvisato un’imperfezione
assai grave circa la gelosia. Secondo l'autore di quel libro, siccome
nella Bibbia, nel Deuteronomio e nella Genesi, Dio si definisce geloso,
allora dovremmo accogliere tale atteggiamento come positivo. Niente
di più sbagliato ma cerchiamo allora di capire perché,
nell'Antico Testamento, Dio che è perfezione assoluta, si definirebbe
geloso.
Consideriamo alcune altre espressioni molto forti presenti nei libri
dei Profeti. «...Così dice il Signore, Dio degli eserciti:
“Popolo mio, che abiti in Sion, non temere l'Assiria... Perché
ancora un poco, ben poco e il mio sdegno avrà fine; la mia
ira li annienterà”». (Is 10, 24).
«Ma quel giorno per il Signore Dio degli eserciti è un
giorno di vendetta, per vendicarsi dei suoi nemici. La sua spada li
divorerà, si sazierà e si inebrierà del suo sangue...».
(Ger 46,10).
Di enunciati così drastici è costellato l'Antico Testamento
(e solo l'antico), e a leggere questi versetti si dovrebbero assumere
quali virtù teologali l'omicidio, l’ira e la vendetta…
Il popolo di Israele viveva in quel bacino del Mediterraneo in cui
il politeismo degli dei antropomorfi e lascivi, imperversava. L'ardita
credenza nell'Unico Dio andava tutelata comunicando a delle genti
“di dura cervice” che Egli teneva loro come si terrebbe
gelosamente un bene o un affetto. In un momento storico in cui guerre
e massacri erano all'ordine del giorno, il Creatore aveva bisogno
di epiteti come vendicatore e condottiero sanguinario, per farsi intendere
da una popolazione che era già adusata a quei termini.
Mancava ancora la vera rivoluzione dell'amore e del perdono di Cristo,
ecco il perché di tanta durezza, era il solo linguaggio che
si poteva comprendere. Purtroppo quella realtà è distante
solo in termini di tempo, visto che oggi molti cristiani trovano le
ragioni del loro credere nello spauracchio della morte e nei quadri
dolorosi dell’Apocalisse.
Con questo non vogliamo trascurare molte altre virtù divine
a noi più comprensibili, pensiamo all’estrema dolcezza
di alcuni salmi.
Pensare alla gelosia come ad un pregio, sarebbe come dire “un
sano tumore” oppure “una salutare ulcera” è
semplicemente una contraddizione in termini.
Questo serva di lezione anche a molte coppie che vedono la gelosia
come un riflesso dell'amore, niente di più falso. L'amore vero
è fatto di fiducia reciproca, di consapevolezza spirituale,
che fa della propria compagna (o del proprio compagno) il sostegno
e il motore per procedere nella vita di ogni giorno verso la perfezione,
unica meta a cui dobbiamo anelare.
Una branca pericolosissima è rappresentata dall'invidia
spirituale,
tanto malefica da essere annoverata tra i peccati contro lo Spirito
Santo. Essa è costituita dal male che finora abbiamo descritto,
rivolto però agli altrui progressi conquistati in campo spirituale.
Si è divorati dall'invidia per il discernimento acquisito,
per la modestia, l'umiltà e la capacità di amare sempre
e comunque di chi ha deciso di prendere la vita seriamente. Si ignora
naturalmente che tali mete possono essere raggiunte da tutti, non
vi è esclusione di alcuno, a patto che ci si metta fino all'ultima
goccia della nostra più determinata volontà.
San Giovanni della Croce (1542-1591) nota che molte volte l'invidia
spirituale si esprime con la tristezza che ci invade nel vedere l'avanzamento
del nostro prossimo nella virtù: è come se togliesse
qualcosa a noi o come se anche noi non potessimo progredire spiritualmente!
È l'invidia allo stato puro, è un vizio la cui radice
è veramente demoniaca.
La superbia è naturalmente
la mala pianta dalla quale “sboccia” l'invidia. L'io centrato
su se stesso, un ego che non tollera che gli altri riescano, che vorrebbe
essere il solo ad eccellere e a suscitare l'ammirazione, per cui si
rode per le virtù, il successo, la riuscita degli altri.
Pertanto la causa efficiente, l'occasione che scatena l'invidia, è
il bene che i nostri fratelli conseguono; il retroterra in cui il
vizio si sviluppa è l'affermazione del proprio io, l’elevazione
del nostro essere a idolo, il culto dell'individualità che
diventa il nostro piccolo Dio; l’invidioso applica a sé
l'espressione: «Non c'è altro dio fuori di me»
e si rattrista se qualche altro io emerge e si afferma.
Se questa tristezza non è bloccata per tempo può anche
portare al delitto, se non con la spada, almeno con la lingua.
Nella vita concreta ci capita di sovente di non trovare l’invidia
allo stato puro e questo ci deve suggerire che dobbiamo tenere sotto
controllo anche le più piccole sfumature dei nostri pensieri,
delle nostre parole e delle nostre azioni. Chi di noi, per esempio,
non si sente un po' contrariato, a volte, nel sentire lodare una terza
persona, sia pure perché quegli elogi sono immeritati o eccessivi?
Non sarà un'invidia che si è alimentata fino a impadronirsi
del cuore, però esso ne è un po’ inquinato e noi
abbiamo il dovere di depurarlo.
Ci sono concetti
che urge assimilare: siamo tutti uguali, tutti uguali nel tempo, tutti
uguali nella società; l'onore, la carica onorifica non hanno
alcuna importanza; lo scettro del comando non ha valore. Vi è
il re, il re vero, il re assoluto, l'Increato che ha lo scettro del
mondo, dell'Infinito e noi dobbiamo essere servi di quel re, nell'interesse
nostro e dell'umanità.
Comincia così a sorgere il nuovo concetto di umiltà,
sacrificio, rinuncia e ubbidienza quali elementi che si legano l'uno
all'altro e attraverso i quali l'essere nuovo viene formato, viene
forgiato.
Finché domina invece imperiosa la concezione della potenza
come oppressione, l'umanità rimarrà sofferente e deludente.
Cerchiamo di essere saggi, ma in che cosa consiste la saggezza? In
null'altro che nel saper vivere.
L’ieri ci appartiene? Sì, come moto riflesso; ci appartiene
in quanto dall'ieri possiamo estrarre l’ammaestramento che ci
allontana dagli errori già commessi; l’ieri non ci appartiene
come una falsariga che ci indica anche il movimento dell'oggi che
quello del domani.
E il domani ci appartiene? No, il domani appartiene all’Eterno,
e ognuno di noi può essere senza domani: l'oggi, pertanto,
rappresenta il presente.
È indispensabile vivere il presente, viverlo armonicamente,
dimenticando la forma dell’ieri, rammentando dell'ieri solo
l'errore è ricavando per il domani le energie di azione necessarie
ad ognuno per migliorarci.
Dal conoscere il proprio sé scaturisce la coscienza delle qualità
che il singolo può utilizzare per vivere saggiamente, per saper
vivere il presente. Se analizziamo questo sé, troviamo l’Origine
e non ci può sfuggire la conclusione. Il presente deve essere
sincronizzato, armonizzato con la Legge di Amore. Se l’analizzarci
e il conoscerci nel profondo è il punto di partenza, l’«amatevi
l’un l'altro come Io amo voi» è il punto
di arrivo. Fra il punto di partenza è di arrivo vi sia l'emendamento,
il pentimento e la resurrezione.
Il Padre ci ha dato tutto, ci ha dato Suo Figlio, il quale ci ha donato
tutto Se stesso. E’ il dinamismo della carità, per cui
i beni e le qualità individuali sono “diffusive di loro
stesse”: non possono essere possedute e godute egoisticamente,
per loro natura devono essere comunicate.
Il bene degli altri, le loro virtù, fanno crescere anche noi,
sono un dono anche per noi.
Capirlo significa entrare in un altro mondo; ed è appunto la
partecipazione a questo mondo spirituale che l'invidioso deve volere
ad ogni costo e domandare all’Eterno incessantemente, quale
impegno adamantino che solo può distoglierlo e guarirlo dal
suo male.