..........:: INVIDIA ::

"Le qualità degli altri ci arricchiscono"

 

Giovanni Bellini, Allegoria della Maldicenza o Invidia, 1490, Venezia, Galleria dell'AccademiaAlla voce “invidia” del vocabolario della lingua italiana troviamo che essa significa: «Sentimento di rancore e di astio per la fortuna, la felicità o le qualità altrui, spesso unito al desiderio che tutto ciò si trasformi in male». L’etimo indica la derivazione dal latino invidus cioè “invido” che, a sua volta, è composto da “guardare” (videre) e “contro” (in) quindi “guardare contro”.
Questa analisi letterale ci aiuta ad inaugurare questo nuovo e utile approfondimento sulle passioni che affliggono l'uomo, infatti, dall'etimologia appena descritta, apprendiamo che l'invidia si manifesta in primo luogo attraverso il modo di guardare, che è ostile (il prefisso “in” è comune a molte parole che indicano negazione e avversità: invalido, incurante, indisposto, ecc.).
Riferendoci alle parole di Gesù: «Gli occhi sono lo specchio dell'anima», veniamo a conoscenza del fatto che dallo sguardo possiamo intuire i moti dell'animo. L’invidia si palesa quindi con sguardi malevoli (e con molto altro, come descriveremo tra poco), e se gli occhi sono riflesso della nostra interiorità, diventa indispensabile conoscere a fondo questa affezione psichica; è in gioco la nostra salute, quella che più conta cioè quella spirituale!
La gravità di questo male è testimoniata da alcuni riferimenti biblici molto specifici.
Nell'episodio di Caino e Abele, dall'invidia nasce l'odio che sfocia nell'assassinio (Gn 4, 3-8) ed è ancora l’invidia che spinge i fratelli ad attentare alla vita di Giuseppe (Gn 37).
Nei Vangeli di Marco e Matteo, nel racconto della passione, si dice chiaramente che Gesù fu ucciso per l'invidia dei sacerdoti: «Pilato sapeva benissimo che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia». (Mc 15, 10). L’assassinio più grave di tutta l'umanità ebbe dunque come movente l'invidia.
La focalizzazione dei pensieri dell’uomo sulla sola materialità, traccia l’ultimo rigo dell’excursus drammatico di questa passione che giunge ai giorni nostri con un’immutata carica di devastazione.
Soldi, successo, bellezza, figli, moglie (marito), fortuna, auto, casa, simpatia sono ciò che l'uomo più invidia. Qualità brillanti e superficiali che attirano l'attenzione dell'invidioso, il quale ha paura che gli altri, a causa delle loro doti o dei loro averi, siano applauditi, abbiano successo e si impongano nella società mentre lui resta nell'ombra.
Abbiamo visto nel capitolo dedicato all'avarizia che l’avaro maschera la sua scoria rivestendola di parsimonia e oculatezza nello spendere, e dietro questi paraventi dà grande sfoggio alla sua pecca. L’invidioso invece, non avendo scappatoie per far accettare agli altri il suo cancro, lo cova nel segreto. Esso sta nelle profondità di tenebra del cuore umano, quelle che apprestiamo alla conservazione del peggio di noi stessi, terreno di coltura di veleni che possono ucciderci ma che non ci decidiamo a smaltire o nemmeno riusciamo a riconoscere.
Giotto, l'Invidia - Padova, cappella degli Scrovegni Questa immagine è ben raffigurata da Giotto, il famoso pittore del Trecento, in una delle sue opere (riportata qui a lato). In essa si vede di profilo un individuo dalla cui bocca esce la serpe dell’invidia, la quale gli si rivolta contro mordendogli il viso e iniettandogli quello stesso siero mortale che voleva indirizzare ad altri.
Vergognoso a dichiararsi ma tenace nell'intento negativo, l'invidioso scalza l'amore per fare posto all'odio e alla calunnia. Qui persino il codice penale ha titolo di intervento. La diffamazione, esternazione diretta dell'invidia, in diverse fattispecie è punita con la reclusione fino a quattro anni ovvero con una multa fino a duemila euro circa (595 c.p. e segg.). La legge umana però non la considera mostruosa quanto e più dell'omicidio, poiché peggio dell'uccisione del corpo è distruggere la pace dell'anima, vilipendere l'onesto, sfogare nella vigliaccheria della menzogna i più bassi istinti e godere nell'avvelenare l'esistenza di una famiglia, creando un ambiente di sospetto e di disistima. Egli accusa e giudica gli altri senza prove, ingrandisce i difetti e applica ai più piccoli sbagli la rimarcazione che si addice agli errori più clamorosi.
Il suo linguaggio è pieno di fiele verso chiunque, a qualsiasi ceto sociale appartenga, anche se si direbbe un “privilegiato” (e per questo avrebbe meno motivi di invidiare chicchessia). Ciò non vale per il malato di invidia perché sa trovare un rivale anche tra i più sofferenti.
Facciamo l'esempio di un uomo d'affari o di una madre di famiglia benestante, essi vivono nella agiatezza, sono persone istruite insomma il mondo (cieco e superficiale) le definirebbe “realizzate”. Il germe però rode, essi diranno: «La nobiltà obbliga, quale peso e costrizione mi impone il mio status! La mia domestica, nonostante le apparenze, se la cava meglio di me, ha una serenità nel vivere, delle esigenze così modeste e così pochi pensieri che non può che essere felice. Io invece lotto e arranco ogni giorno, mentre lei “se la spassa”». Nella sua posizione dominante gode nel negarle un migliore trattamento economico e la umilia perché non tollera il suo presunto privilegio.
Inutile stigmatizzare il rapporto opposto, cioè quello tra un povero che prova risentimento quando vede il lusso, mentre lui non ha ancora il necessario; è purtroppo così comune che non ritengo di dover entrare nei particolari.

Vorrei ora aprire un'ampia parentesi dedicata alla gelosia che così spesso si accompagna all'invidia. I Latini e i Greci infatti le confusero in un unico vocabolo ma tra le due patologie ci sono comunanze e distinzioni che occorre chiarire.
Un medico francese del secolo XIX, tale Vitet, le raffronta in maniera eccellente, vi riporto le sue parole: «L'invidia è una disposizione abituale a vedere con dolore gli altri godere dei beni e dei vantaggi che noi non possediamo, accompagnata dal desiderio continuo di vederli spogliati, per gioirne.
La gelosia invece è il voler possedere noi soli, accompagnato da inquietudine ed avversione più o meno violenta contro coloro che sospettiamo pretendenti al medesimo possesso, unito a continui sforzi per impedire loro di giungervi».
In pratica siamo gelosi del nostro bene e invidioso dell'altrui.
Aggiungo che la gelosia dipende solitamente da rivalità in amicizia o in amore invece l'invidia è diretta al grado, agli onori, alle ricchezze, all'ingegno.

Mentre consultavo un libro molto valido quale fonte di insegnamenti in questo genere di argomenti, ho ravvisato un’imperfezione assai grave circa la gelosia. Secondo l'autore di quel libro, siccome nella Bibbia, nel Deuteronomio e nella Genesi, Dio si definisce geloso, allora dovremmo accogliere tale atteggiamento come positivo. Niente di più sbagliato ma cerchiamo allora di capire perché, nell'Antico Testamento, Dio che è perfezione assoluta, si definirebbe geloso.
Consideriamo alcune altre espressioni molto forti presenti nei libri dei Profeti. «...Così dice il Signore, Dio degli eserciti: “Popolo mio, che abiti in Sion, non temere l'Assiria... Perché ancora un poco, ben poco e il mio sdegno avrà fine; la mia ira li annienterà”». (Is 10, 24).
«Ma quel giorno per il Signore Dio degli eserciti è un giorno di vendetta, per vendicarsi dei suoi nemici. La sua spada li divorerà, si sazierà e si inebrierà del suo sangue...». (Ger 46,10).
Di enunciati così drastici è costellato l'Antico Testamento (e solo l'antico), e a leggere questi versetti si dovrebbero assumere quali virtù teologali l'omicidio, l’ira e la vendetta…
Il popolo di Israele viveva in quel bacino del Mediterraneo in cui il politeismo degli dei antropomorfi e lascivi, imperversava. L'ardita credenza nell'Unico Dio andava tutelata comunicando a delle genti “di dura cervice” che Egli teneva loro come si terrebbe gelosamente un bene o un affetto. In un momento storico in cui guerre e massacri erano all'ordine del giorno, il Creatore aveva bisogno di epiteti come vendicatore e condottiero sanguinario, per farsi intendere da una popolazione che era già adusata a quei termini.
Mancava ancora la vera rivoluzione dell'amore e del perdono di Cristo, ecco il perché di tanta durezza, era il solo linguaggio che si poteva comprendere. Purtroppo quella realtà è distante solo in termini di tempo, visto che oggi molti cristiani trovano le ragioni del loro credere nello spauracchio della morte e nei quadri dolorosi dell’Apocalisse.
Con questo non vogliamo trascurare molte altre virtù divine a noi più comprensibili, pensiamo all’estrema dolcezza di alcuni salmi.
Pensare alla gelosia come ad un pregio, sarebbe come dire “un sano tumore” oppure “una salutare ulcera” è semplicemente una contraddizione in termini.
Questo serva di lezione anche a molte coppie che vedono la gelosia come un riflesso dell'amore, niente di più falso. L'amore vero è fatto di fiducia reciproca, di consapevolezza spirituale, che fa della propria compagna (o del proprio compagno) il sostegno e il motore per procedere nella vita di ogni giorno verso la perfezione, unica meta a cui dobbiamo anelare.
Una branca pericolosissima è rappresentata dall'
invidia spirituale, tanto malefica da essere annoverata tra i peccati contro lo Spirito Santo. Essa è costituita dal male che finora abbiamo descritto, rivolto però agli altrui progressi conquistati in campo spirituale.
Si è divorati dall'invidia per il discernimento acquisito, per la modestia, l'umiltà e la capacità di amare sempre e comunque di chi ha deciso di prendere la vita seriamente. Si ignora naturalmente che tali mete possono essere raggiunte da tutti, non vi è esclusione di alcuno, a patto che ci si metta fino all'ultima goccia della nostra più determinata volontà.

San Giovanni della Croce (1542-1591) nota che molte volte l'invidia spirituale si esprime con la tristezza che ci invade nel vedere l'avanzamento del nostro prossimo nella virtù: è come se togliesse qualcosa a noi o come se anche noi non potessimo progredire spiritualmente!
È l'invidia allo stato puro, è un vizio la cui radice è veramente demoniaca.
La superbia è naturalmente la mala pianta dalla quale “sboccia” l'invidia. L'io centrato su se stesso, un ego che non tollera che gli altri riescano, che vorrebbe essere il solo ad eccellere e a suscitare l'ammirazione, per cui si rode per le virtù, il successo, la riuscita degli altri.
Pertanto la causa efficiente, l'occasione che scatena l'invidia, è il bene che i nostri fratelli conseguono; il retroterra in cui il vizio si sviluppa è l'affermazione del proprio io, l’elevazione del nostro essere a idolo, il culto dell'individualità che diventa il nostro piccolo Dio; l’invidioso applica a sé l'espressione: «Non c'è altro dio fuori di me» e si rattrista se qualche altro io emerge e si afferma.
Se questa tristezza non è bloccata per tempo può anche portare al delitto, se non con la spada, almeno con la lingua.
Nella vita concreta ci capita di sovente di non trovare l’invidia allo stato puro e questo ci deve suggerire che dobbiamo tenere sotto controllo anche le più piccole sfumature dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni. Chi di noi, per esempio, non si sente un po' contrariato, a volte, nel sentire lodare una terza persona, sia pure perché quegli elogi sono immeritati o eccessivi? Non sarà un'invidia che si è alimentata fino a impadronirsi del cuore, però esso ne è un po’ inquinato e noi abbiamo il dovere di depurarlo.

Ci sono concetti che urge assimilare: siamo tutti uguali, tutti uguali nel tempo, tutti uguali nella società; l'onore, la carica onorifica non hanno alcuna importanza; lo scettro del comando non ha valore. Vi è il re, il re vero, il re assoluto, l'Increato che ha lo scettro del mondo, dell'Infinito e noi dobbiamo essere servi di quel re, nell'interesse nostro e dell'umanità.
Comincia così a sorgere il nuovo concetto di umiltà, sacrificio, rinuncia e ubbidienza quali elementi che si legano l'uno all'altro e attraverso i quali l'essere nuovo viene formato, viene forgiato.
Finché domina invece imperiosa la concezione della potenza come oppressione, l'umanità rimarrà sofferente e deludente.
Cerchiamo di essere saggi, ma in che cosa consiste la saggezza? In null'altro che nel saper vivere.
L’ieri ci appartiene? Sì, come moto riflesso; ci appartiene in quanto dall'ieri possiamo estrarre l’ammaestramento che ci allontana dagli errori già commessi; l’ieri non ci appartiene come una falsariga che ci indica anche il movimento dell'oggi che quello del domani.
E il domani ci appartiene? No, il domani appartiene all’Eterno, e ognuno di noi può essere senza domani: l'oggi, pertanto, rappresenta il presente.
È indispensabile vivere il presente, viverlo armonicamente, dimenticando la forma dell’ieri, rammentando dell'ieri solo l'errore è ricavando per il domani le energie di azione necessarie ad ognuno per migliorarci.
Dal conoscere il proprio sé scaturisce la coscienza delle qualità che il singolo può utilizzare per vivere saggiamente, per saper vivere il presente. Se analizziamo questo sé, troviamo l’Origine e non ci può sfuggire la conclusione. Il presente deve essere sincronizzato, armonizzato con la Legge di Amore. Se l’analizzarci e il conoscerci nel profondo è il punto di partenza, l’«amatevi l’un l'altro come Io amo voi» è il punto di arrivo. Fra il punto di partenza è di arrivo vi sia l'emendamento, il pentimento e la resurrezione.
Il Padre ci ha dato tutto, ci ha dato Suo Figlio, il quale ci ha donato tutto Se stesso. E’ il dinamismo della carità, per cui i beni e le qualità individuali sono “diffusive di loro stesse”: non possono essere possedute e godute egoisticamente, per loro natura devono essere comunicate.
Il bene degli altri, le loro virtù, fanno crescere anche noi, sono un dono anche per noi.
Capirlo significa entrare in un altro mondo; ed è appunto la partecipazione a questo mondo spirituale che l'invidioso deve volere ad ogni costo e domandare all’Eterno incessantemente, quale impegno adamantino che solo può distoglierlo e guarirlo dal suo male.



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