Proseguiamo
nell'apertura delle stanze che costituiscono il “castello
interiore” dell'animo umano, per scovarvi la sporcizia
che troppo spesso inquina la nostra esistenza.
Speriamo che gli elementi forniti siano utili all'individuazione
ma, soprattutto, che la buona volontà di ognuno sia tale da
indurci in una determinata opera di eliminazione.
Notiamo subito che la lotta contro i vizi e le passioni non può
prescindere dal VOLERE, dallo stimolo individualmente impresso ad
ogni passo del cammino verso la purificazione.
È quindi da ritenersi grave la poca voglia di combattere o
addirittura la resa. L'accidia,
in sostanza, è proprio questo: una tendenza abituale a restare
spiritualmente immoti e a compiacersi di tale stato; essa è
lo “sbadiglio dell'anima”.
L'accidia consiste in una mera
affezione dell'anima, da cui scaturiscono, quali sintomi, la
svogliatezza, la conduzione di una vita tediosa, l'indolenza.
Dal frutto riconosciamo l'albero (ci suggerisce Gesù);
vorremmo quindi approfondire il concetto di pigrizia, che è
un'esperienza che cogliamo con più facilità e
maggiormente sperimentiamo (ahinoi). Torneremo in seguito alla fonte
del male, proponendo la cura più adatta.
Il pigro teme la sollecitudine e la fatica, ama il non far nulla e
fugge il travaglio.
L'inerzia di chi non opera e l'oziosità sono proprie
di chi consuma il tempo in cose frivole, a danno di se stesso e dell'intera
società.
La nostra presenza e azione non sono eventi facoltativi. L'ambiente
in cui ci troviamo, la nostra famiglia, gli amici, persino gli sconosciuti
con cui c'imbattiamo necessitano di noi; la nostra esistenza
in un determinato luogo non è per niente casuale.
Immaginereste una parete rivestita da un magnifico mosaico a cui manchi
però una tessera? Tutta l'opera apparirebbe compromessa.
Quell'assenza rappresenta la nostra immobilità, il bivacco,
il nostro non essere.
Il pigro si fa riconoscere dalla sua aria melensa e uggiosa, dallo
sguardo pesante e perennemente stanco, e dalla lentezza abituale di
ogni suo movimento.
Un paragone zoologico ben intuibile è quello col bradipo, mammifero
originario della foresta amazzonica, la cui flemma è proverbiale.
L'ozioso dà qualche segno di agitazione solo quando si
tratta di andare a letto; allora veramente si spiccia; in un batter
d'occhio è bell'è spogliato, coricato e
addormentato. Del resto il suo sonno è profondo; lento e difficile
lo svegliarsi, interminabile il levarsi.
Di tutti i mortali è sicuramente quello che assapora meglio
la perdita del tempo e che possiede il mezzo più sicuro per
condursi alla rovina.
Irresoluto, è divorato dalla noia ed è a tutti noiosissimo.
In qualunque posizione sociale egli si trovi, lo si vede come un uomo
“nullo”, al più mediocre.
È improduttivo come un calabrone in un'arnia.
Questi aspetti che possono contraddistinguere l'umana quotidianità,
sono il riflesso tangibile di ciò che nasce come una stortura
spirituale, l'accidia propriamente
detta.
La sue conseguenze si costatano in tutta la loro gravità nella
vita interiore di ciascun individuo, e la sua definizione che proviene
dai testi biblici, ce ne dà un esempio.
Nella
Bibbia dunque, e negli scritti dei Padri della Chiesa, l'accidia
assume il significato di negligenza e di stanchezza delle cose spirituali,
unite a tristezza.
Essa veniva però additata come una scoria attribuibile ai soli
consacrati, ma credo che bisognerebbe un po' aggiornare la situazione.
L'immergersi di tutti noi nell'attività, il correre
da mattina a sera, l'affannarsi per la fine settimana “fuori
porta” e per le ferie, questo moto continuo che altro è
se non un modo per distrarsi e per sottrarsi al combattimento spirituale?
Ha ragione il grande filosofo Blaise Pascal
(1623–1662), il quale analizza la parola “divertissement”,
cioè divertimento, e ne coglie il senso profondo nell'atteggiamento
di svicolare, fare una diversione, cambiare strada e allontanarsi
dall'impegno della catarsi.
Fiacchezza dell'anima, sciatta trascuratezza nella pratica dell'insegnamento
del Cristo, l'accidia è
anche svergognata accusatrice di Dio, in quanto lo giudica duro e
troppo esigente.
Dante Alighieri non è stato certo clemente con questa sorta
di colpevoli, li considerò semplicemente cadaveri. “Questi
sciagurati che mai non fur vivi”. Inferno, canto
III.
Troviamo uno spunto significativo anche tra i “Detti segreti”,
tratti dalla più antica letteratura cristiana. Uno di questi
così recita: Gesù si sedette all'ombra di una
parete; ma il padrone del muro lo allontanò. Allora Gesù
disse: “Non sei tu che mi
hai allontanato. Mi ha allontanato Colui al quale non piace che io
riposi all'ombra”. Chi ha orecchie
per intendere…
Percorrere tristemente il sentiero tracciato da Gesù, come
imposizione e giogo, è un effetto del vizio fin qui trattato
perché la vita cerca la gioia. Essa è fatta per questa,
la quale ci indica dov'è il bene. Il bene è contraddistinto
dal segno della gioia, il male dal segno del dolore. Gioie momentanee
e fittizie potranno indurci in errore, ma se esse celano il male,
presto scoprono il dolore di cui sono fatte.
Gioia è tutto ciò che va verso Dio, Sommo Bene.
La vita è fatta per evolvere, sia pur attraverso il dolore,
verso una letizia sempre più grande.
Tutte le volte che seguiamo la Legge di Dio, seminiamo la gioia, anche
se ce ne separa un abisso di prove e di dolori. Tutte le volte che
andiamo contro la Legge, seminiamo per noi dolore, anche se ce ne
separa un mare di vantaggi e di piaceri.
L'amore dell'agio e del quieto vivere, una concezione
rilassata della vita interiore, il non ritenere giusto o necessario
privarsi di soddisfazioni umane, tutto questo guasta la beatitudine
dello spirito. Significa tenere il piede in due staffe, essere servitori
di due padroni: vorremmo deciderci per Dio senza avere il coraggio
di lasciare il mondo, così non si gusta il mondo e ci si stanca
di Dio stesso.
Molti sono gli strumenti che coadiuvano il maligno nello spargimento
dell'errore. Pensiamo per esempio al danno che può produrre
al nostro rapporto con il Creatore, il tempo passato davanti al televisore,
perché non si vuole fare la fatica di stare in contatto con
Lui. Anche questa è una vittoria dell'accidia.
Nel cammino spirituale occorrono sempre molta prudenza ed equilibrio.
Quando si vogliono fare sforzi eccessivamente severi, quando vogliamo
togliere tutto alla natura, essa si ribella e noi crolliamo. Volenti
o nolenti non possiamo lasciare “frate asino” (ossia secondo
Francesco d'Assisi, il nostro corpo) a digiuno completo, un
po' di biada gliela dobbiamo offrire.
L'impegno esagerato e orgoglioso nell'Opera per il Padre
può condurre ad uno stato di sonnolenza paralizzante: uno si
stanca perché si aspetta troppo e non lascia a Dio la libertà
di intervenire nella sua vita, e di organizzarla a Suo piacimento.
Noi abbiamo iniziato il cammino conoscendo la via e la Meta, che è
costituita dal ritorno alla casa Paterna. La Legge dice “moltiplicarsi”
ed il bivacco invece ribatte “sosta”.
Che sarebbe dell'universo se un solo atomo della sua energia
si opponesse al moto infinito ed eterno? Che succederebbe se una sola
particella divenisse statica di fronte all'eterna valanga di
energie in moto? Il caos. Questo sarebbe il risultato della sosta
di un solo atomo di energia, in quanto quell'arresto altererebbe
l'equilibrio dei vari sistemi e ciò porterebbe il disordine
nel moto infinito.
Che accadrebbe ad un umano se per pochi minuti la linfa che scorre
nelle sue vene dovesse sostare, ribellandosi alla Legge di Amore impressa
dall'anima e che si chiama moto? Il collasso, il trapasso per
l'umano.
Orbene, ciò che avviene nel mondo delle energie infinite, delle
energie siderali, accade nel finito della forma umana e anche nel
moto animico.
Se ci è detto: “Non bivaccate”,
dobbiamo rammentare che noi “siamo” perché Egli
è, e che se siamo da Lui staccati, è per causa e volontà
nostra. Ricordiamoci che Egli ci richiama e ci ha concesso il vivere
nel tempo per la Resurrezione, non per la sosta, non per il riposo
o la mollezza.
Non bivaccare, non accidiare, significa abbandonare la valle, salire
lentamente, ma progressivamente l'erta del monte, significa
rivolgere il proprio passo verso quella vetta sulla quale splende
la Sua Croce, avvicinandosi al Suo trono e conquistare con l'anima
la Verità.
Persino la caduca materia ci parla del moltiplicarsi delle energie.
Nell'epidermide le cellule si estinguono in superficie e sono
rimpiazzate; dall'alba al tramonto il ricambio è in atto.
Allo stesso modo ciò accade per la parte muscolare e sanguigna,
nel perfetto moto funzionale dell'organismo.
La materia compie perciò un lavoro, un'opera che sente
necessaria alla propria esistenza, sia pure transitoria.
Noi umani purtroppo, di fronte a questa conoscenza acquisita, non
cogliamo l'ammaestramento e cioè la necessità
di imprimere un moto di rinnovo anche alla parte essenziale del proprio
sé, cioè alla propria personalità psichica.
La natura si rinnova per Provvidenza Divina; lo Spirito per rinnovarsi
ha bisogno di una forza motoria che si chiama “volere”,
di una Luce che lo illumini, cioè della Fede, e di un pane
che lo alimenti: l'Amore!
La staticità rappresenta il baratro, urge perciò plasmarci
nella fede, persuadendoci che senza di essa non potremo giungere alla
Meta.
Non ci accada come a Lorenzo de' Medici che in vista dell'opera
(nel suo caso solo materiale) disse: “Tanto è greve
l'affanno che sol pensando addoloro ed accidio”.
Perché non intraprendiamo decisamente la Via dello Spirito?
Perché ce ne stanchiamo?
Ce lo dice Sant'Ignazio di Loyola (1491-1556): dopo il suo risveglio
alla Realtà, si ritirò per un periodo di digiuno e preghiera;
in quell'occasione il tentatore gli sibilò. “Come
farai a vivere sempre così?”. In questo modo cercava
di disarmarlo facendolo cadere nell'accidia,
nell'ozio spirituale e nello scoraggiamento.
Come reagire a questa tentazione? Facendo della giornata la misura
stessa della vita (Mt.6,22). Non preoccupiamoci del domani, è
già nelle mani di Dio. Organizziamoci giorno per giorno in
modo da dare il giusto tempo al riposo (circa otto ore), mentre nel
resto della giornata il pensiero dominante sia: “Compio questo
atto, questa fatica, per ritornare al Padre, perché atto e
fatica sono espiazione”.
Questo pensiero trasforma la semplice attività lavorativa in
più vasta opera, in semina.
Facciamo di ogni dì il nostro campo di battaglia: in questo
modo sfuggiamo allo sconforto che paralizza con la noia tutta la nostra
vita spirituale.
Concludiamo con
un brano tratto dalla “Canzone a Nostra Signora”,
del poeta portoghese Francisco de sà de Mirando (1481-1558);
essa ci illustra efficacemente quale aiuto riceviamo continuamente
dalla nostra Mamma Celeste nella diuturna fatica.
Il suo immenso amore filiale si effonde su di noi, quale sprone e
soccorso.
Sicura Porta del
Cielo, Giglio delle valli,
Che mai ebbe ne avrà l'eguale,
Data per solo rimedio ai nostri mali
Contro i demoni, sia che operino a mezzo il giorno
O nella notte oscura,
Speranza sicura;
Contro tali forze, contro tali maestri d'inganni,
Rinvigorito da Voi, per terra e per mare
Non solo non avrei paura
Ma uscirei lieto in campo a combattere.
Vergine delle
vergini, come il tempo vola!
Nostra certa Speranza,
…
Quante lacrime amare sparse!
Ma, in ginocchio,
volgo a Voi gli occhi, tutto il resto è nulla.