..........:: AVARIZIA ::

Possediamo realmente solo ciò che doniamo

 

Gustave Doré - "...tutto l'oro, ch'è sotto la luna, o che già fu di queste anime stanche non potrebbe farne posar una" - Inferno, C. VII v.64-66L'avaro è colui che, avendo il cuore attaccato alle ricchezze, è tutto dedito a ricercarle e ad accumularle, anche a danno dei più indispensabili bisogni. Le ama in se stesse, ostinandosi passionalmente a custodirle. Esse sono diventate la sua sicurezza, la sua gioia, il suo Dio.
Naturalmente c'è una gradualità pure in questo vizio: si va dalla semplice spilorceria fino a una specie di idolatria del denaro, come si è detto prima.
Il timore continuo di vedersi strappare l'oro conquistato è l'apprensione tipica dell'avaro.
Diciamo subito però che l'avarizia non riguarda solo il denaro (esistevano gli avari anche prima che fossero inventate le monete) ma tutto ciò che pensiamo ci appartenga. Per esempio, siamo ben muniti di tempo, una preziosa moneta (time is money) che pensiamo solo a tesaurizzare per i nostri interessi. Abbiamo ricevuto in dono delle grazie straordinarie come l'intelligenza, l'acume, la vigoria del fisico, ecc. ma le gestiamo con uno spirito di proprietà. Quando l'individuo se ne vede spogliato, si sente smarrito e si lamenta, come se fosse stato privato del suo Signore. Questo vale maggiormente quando si parla di facoltà spirituali; se, grazie a Dio, riceviamo la possibilità di gustare uno dei mezzi che Egli ci mette a disposizione per meglio comprendere il senso della vita, e per potenziare l'aiuto che dobbiamo al nostro prossimo, subito lo accaparriamo, volendo dimenticare il fine cui è votato.
Così l'avaro dimostra di non amare il suo Creatore, ma i suoi doni: è un'anima ancora avvolta nei desideri del proprio io inferiore.
Perché l'avarizia è annoverata tra i vizi capitali? Proprio perché, come gli altri sei, è càput (capo, origine) di vari malanni dello spirito. Essa genera insensibilità di cuore, inquietudine nel possesso, ingratitudine, pigrizia, frode e altri soprusi.

Solitamente la gravità di questa patologia dello spirito aumenta con il crescere dell'età, infatti la si osserva con più; facilità negli anziani che nei giovani. Bisogna però dire che una cattiva educazione, ignorante i valori dello Spirito, e ancora di più la mancanza d'esempi di generosità da parte dei genitori, instilla fin dall'infanzia il germe che poi matura nell'età adulta.
Nessun ceto sociale è immune: dirigenti e operai, ignoranti e dotti, poveri e ricchi ne sono ugualmente affetti, sebbene l'incidenza aumenti nei più abbienti.
Cerchiamo di darne una spiegazione. Ricordiamo che l'avaro non si accontenta del solo possesso o della disponibilità di beni, ma cerca l'appagamento nell'incamerarne sempre di nuovi, per trattenerli, nasconderli e contarli, in un elenco che non è mai sufficientemente lungo; il milionario avaro ha la sensazione d'essere povero, di riuscire appena a sopravvivere e, invero, non spende nulla per il proprio agio, vuole apparire come un diseredato mentre il suo patrimonio continua a crescere.
Da notare che l'avaro nasconde il suo capitale ma non la sua scoria. Sono molti, infatti, quelli che di frequente si lamentano delle difficoltà della vita, delle scadenze fiscali ed economiche d'ogni genere, e che ostentano il loro presunto equilibrio e l'oculatezza nello spendere (quando spendono, cioè mai). Non hanno difficoltà a dirsi oberati di incombenze che faticano a fronteggiare, è per questo che sono sempre così tristi e pallidi.
Non possono pagare, nemmeno se fosse per la vita dei loro figli.
Solo in un'occasione il loro viso s'illumina: quando ricevono. Se gli fanno un dono di qualche valore, subito stendono la mano che si spalanca per accoglierlo; la loro figura diventa raggiante di gioia, gli occhi umidi per la tenerezza; vanno in estasi, con la bocca semichiusa non trovano espressioni per manifestare la felicità;… che molto velocemente si esaurisce. La saccoccia è piena ma il cuore non è sazio e le mani fameliche tornano a brancolare alla ricerca di nuovi guadagni e donazioni, con la solita malinconia.
Dell'avarizia si è fatta beffe in molte occasioni la letteratura, su tutti ricordiamo “L'Avaro” di Molière.
In epoca recente, la fantasia di Walt Disney, il più famoso disegnatore di fumetti, ha partorito un personaggio come Paperon de' Paperoni che raccoglie in sé tutte le caratteristiche tipiche dell'avaro.
Una menzione speciale la dobbiamo però a Dante Alighieri che nella Divina Commedia incontra l'avarizia al principio della sua avventura nell'aldilà. Conosciamo tutti l'inizio del componimento: Dante, avendo smarrito “la diritta via”, si trova in una “selva oscura”. Uscitone, giunge ai piedi di un colle illuminato dai raggi del sole. Esso simboleggia il cammino di ascesa che tutti dobbiamo compiere. Per intenderci, il poeta si è perso tra le tortuosità e le angosce del mondo e, percependo un inizio di risveglio spirituale, si incammina. Ecco allora pararsi davanti a lui tre fiere: una lonza (ghepardo), un leone e una lupa, magra ed affamata. Il poeta è costretto ad indietreggiare finché non gli appare per la prima volta Virgilio, che gli domanda perché non continui la salita del colle che è principio e causa d'ogni gioia. Ascoltate le motivazioni, la guida gli spiega che la lupa è quell'avarizia tanto malvagia e crudele che non è mai soddisfatta; dopo ogni pasto ha ancora più fame di prima.
Nel canto VII dell'inferno troviamo invece gli avari che espiano la loro colpa. Il contrappasso consiste nel dover trasportare massi enormi, che rappresentano i beni terreni accumulati, stando legati e in continuo scontro con un altro genere di peccatori: i prodighi. I due estremi, ugualmente deprecabili, non trovano pace per i reciproci errori.
Numerose sono le invettive, tra le quali riportiamo quella del canto XIX (I cantica), verso 112: “Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento”.
Dunque l'avarizia è un impedimento grave, ben stigmatizzato anche da Dante Alighieri.
Vorrei qui citare anche una breve storiella in cui mi sono imbattuto mentre mi documentavo per produrre questo scritto.
Un certo Lorenzo Pignotti, medico e letterato a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, scrisse una poesia su un suo paziente (Anselmo), presso il quale accorse in punto di morte. Per dovere di brevità sono costretto a parafrasarla e a riassumerla, ma vi perdete solo il ritmo delle rime alternate, il senso è chiaro.
Anselmo ricco o Anselmo poverello? Poteva far scorrere vino in abbondanza, ma alla sua tavola c'era solo acqua. Aveva ammassato interi sacchi d'oro e argento, ma il languore prodotto dal digiuno, lo aveva fatto cadere in una sorta di coma. Già il suo erede si precipitava a svuotare gli scrigni e a contare il denaro, il cui tintinnio fece ridestare Anselmo moribondo. «Come? Mentre sono ancora vivo?» Esclamò. Gli suggerì il medico: «Prendi dunque, per riaverti, un po' di cordiale». «E quanto costa?» «Poco, solo otto soldi».
Ribatté allora Anselmo con l'ultimo filo di voce: «Ohimè sono rovinato! Che cosa mi importa che io muoia di malattia oppure dagli amici assassinato!»
Nemico di Dio e della società l'avaro, per una corretta riparazione, è il carnefice di se stesso.
Abbiamo giustificato l’inserimento dell’avarizia nel novero dei peccati capitali, in quanto generatrice d’altri vizi che ad essa si legano. Analizziamo allora come si relazionano tra loro le varie scorie.
Sembra assurdo parlarne come se si trattasse di cose viventi, considerando che la disamina è rivolta ad aspetti dell'interiorità d'ogni uomo, ma ci stupiremmo solo se ci dimenticassimo che c'è Satana ad animarle e a tenerle ben sveglie.
La dimenticanza di Dio, la mancanza di umiltà e amore, offrono terreno fertile alla posa delle varie scorie, e il maligno ha come preciso obiettivo quello di insediare nel cuore di ognuno le sue proprie leggi, per schiavizzarlo nel suo regno. Il suo dominio si regge dunque sulla superbia, sull'ira, sull'avarizia, sull'invidia, sull'accidia, sulla gola e sulla lussuria, ma come possono sopravvivere due superbi, uno accanto all'altro, mentre cercano di uccidersi a vicenda per ottenere il primato? Non spingiamoci oltre e torniamo nell'alveo del nostro tema, cogliendo, per esempio, come l'avarizia cozzi violentemente con l'orgoglio. Capita a volte di scoprirci generosi, mentre al nostro bel gesto è offerto un palco per mostrarsi. Siamo con gli amici e i colleghi di lavoro, ed ecco che, ad una richiesta d'aiuto, portiamo svelti la mano al portafoglio, esibiamo le banconote fruscianti, e le consegniamo al beneficiario del momento. Subito si affollano i complimenti degli astanti, che incassiamo con il petto gonfio; ci scherniamo con falsa umiltà, mentre godiamo della popolarità guadagnata. Ma se è stato l'orgoglio a muoverci a pietà, insorge subito l'avarizia che si sente tradita: «Perché questo spreco? Che fine farà quel denaro? Sarà usato nella maniera più appropriata? Come si fa ora che il tesoro è disperso, dopo tutti i sacrifici per accumularlo?»
L'uomo è combattuto, deve dare conto delle proprie azioni alle sue scorie, che lo hanno asservito. Si genera un conflitto che è fonte di malessere, dubbio sulla condotta da seguire, depressione e dispiacere, ecc.
Dall'antisistema di Belzebù, non può derivare un frutto positivo.
Avarizia, invidia e accidia invece, sono fervide sostenitrici l'una dell'altra, condannano la gola, la lussuria e l'ira, inutili ostentazioni e dispendio di energie…
Ci siamo permessi un pizzico di ironia, tanto quanto basta per ridicolizzare Satana, il quale ha velleità di dominio su ogni vivente; la cosa che fa meno sorridere è che in troppi ancora bramano per avere una dimora nel suo regno di caos.
L'insegnamento biblico sulle ricchezze è molto complesso, tanto da sembrare contraddittorio: da una parte la ricchezza è vista come un dono di Dio, dall'altro ci risuona nelle “orecchie del cuore” la minaccia di Gesù: «Guai a voi ricchi, perché avete giù la vostra consolazione» (Lc 6, 24-25). Eppure, nella sua complessità, è un insegnamento coerente ed equilibrato. Nella bibbia non troviamo una condanna aprioristica della ricchezza; tuttavia, dai testi del Vecchio Testamento, la ricchezza materiale non è mai presentata come il migliore dei beni: è un bene relativo e secondario.
Lo scandalo non è che ci siano un ricco e un povero, ma che il povero, pur desiderando di nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco, non ne ricevesse nessuna (Lc 16, 21-23). Il ricco è responsabile del povero.
Il servitore di Dio aiuta col suo denaro il povero, il servitore di Mammona conserva il denaro per appoggiarsi ad esso, e non vede i fratelli.
L'uomo saggio vede con chiarezza i limiti della ricchezza: vi sono realtà che essa non può comperare; è spesso causa di preoccupazioni inutili.
Sta a noi cogliere quale sia la vera prosperità ed essa è costituita da beni diversi da quelli di questo mondo. Cristo si è proclamato il Pane della vita «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6, 35). Dio è talmente liberale che ci sazia dandoci se stesso. In questo modo ci svela la vastità della nostra fame, che è fame di Assoluto e perciò soltanto saziandoci di Dio potremo placare l'inquietudine del nostro cuore. Risponde Gesù alla Samaritana: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete» (Gv 4, 13-14).
Guai al tiepido, che si immagina di essere ricco, mentre gli manca l'unico tesoro.
Insomma, il vero cristiano è sempre ricco, anche quando manca d'ogni cosa, perché chi ha Dio, ha Tutto. Il Cristo è venuto a cercare il cuore dell'uomo per offrirgli il Suo Amore infinito. Questo Amore Divino, che è il vero cibo dell'anima dell'umano, è paragonato da Gesù alla perla preziosa, al tesoro unico, per il quale bisogna vendere tutto, perché non si può servire due padroni: il denaro è un padrone spietato, e fa dimenticare l'essenziale, vale a dire il Regno di Dio, e blocca sulla Via della Perfezione. Ci ha fatto una promessa: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli» (Mt 5, 3)
Gesù sentenzia: «Non potete servire a Dio e a Mammona» (Mt 6,24). Gli fa eco San Paolo che afferma senza esitazioni che i cùpidi e gli avari non avranno parte al Regno di Dio (cfr. 1 Cor 6,10).
Occorre lasciarsi spogliare di tutto per essere capaci di accoglierLo, perché la logica dell'interesse personale, rende falsa e sospetta l'Opera nella vigna del Signore.
Cuore libero, sguardo fraterno, mani generose: in questa prospettiva anche la ricchezza, strumento micidiale di Satana, può essere recuperata alla logica dell'Amore.

Avviamoci ora alle considerazioni finali.
Ognuno di noi, pur rappresentando in rapporto al moto infinito un'impercettibile fonte di energia, è necessario; se il nostro ingranaggio viene convenientemente lubrificato, il moto scorre libero, dolce, progressivo, continuo; se la lubrificazione manca, il movimento diventa più lento, più stentato e l'attrito si fa sentire e lo si percepisce in tutta la sua forza di resistenza.
Se ci poniamo nella condizione di eliminare le nostre scorie, la lubrificazione è in atto e il moto procede scorrevole e perpetuo; se le scorie permangono in circolo, formano un attrito ed il processo rallenta, la nostra stessa evoluzione rallenta. Nel moto di dare e ricevere, che permea il tutto, noi possiamo ravvisare l'impronta dell'Eterno, in quanto Egli concede la vita all'Infinito ed al finito (tempo). Quando doniamo è certo quindi che non diamo nulla di nostro, ma unicamente restituiamo; dobbiamo sapere altresì che in questo moto di restituzione non si verificherà mai per noi un depauperamento di energia, in quanto è ineluttabile che riavremo in cambio una nuova elargizione centuplicata di energie, quale eterna manifestazione di misericordia del Padre (Mt 19, 27-30)
Ecco perché quando restituiamo, la nostra madia si riempie di pane, di energia, che noi dovremmo nuovamente ridistribuire.
Per capirci meglio consideriamo il caso di un bambino che getta una palla di gomma contro un muro: la palla rimbalza e ritorna al fanciullo. Dovremmo fare noi pure con le energie che l'Eterno ci ha dato: lanciarle quale aiuto verso il nostro prossimo; non più quelle stesse energie, ma altre modificate ritorneranno verso di noi. In questo si compendia il moto armonico e ritmico che deve intercorrere tra individuo e individuo, tre collettività e collettività, fra ambiente umano ed Ambiente Infinito.
Il donare è origine e mezzo. Il saper donare non è la conseguenza di uno stato di agiatezza o di ricchezza, ma di uno stato di perfezione animica.; serve a portare gioia e sorriso dove gioia e sorriso sono ignoti.
Chi eroga, deve dimenticare il dono fatto nell'attimo stesso in cui la donazione avviene, rammentando che egli, il donatore, è piccola cosa.
Vorrei terminare con l'ennesimo sprone ad accelerare la catarsi dell'anima; ci conviene essere solleciti, soprattutto considerando che non c'è più tempo per rimandare!
Non siamo soli, è Dio stesso che ci assiste in questa opera faticosa e dolorosa, lo aveva bene inteso il filosofo tedesco Leibniz che ce lo comunica nella conclusione del suo libro “Discorso di metafisica”.
È con quelle parole, balsamo per l'anima consapevole, che vi saluto e vi rimando al prossimo approfondimento.
«Gesù Cristo ha rivelato agli uomini i misteri e le leggi mirabili del Regno dei Cieli e la grandezza della suprema felicità che Dio prepara a quelli che Lo amano.
Gli antichi filosofi hanno conosciuto troppo poco queste importanti verità; Gesù Cristo solo le ha espresse divinamente bene, e in modo così chiaro e familiare, che le hanno capite pur gli spiriti più grossolani; così il Suo Evangelo ha cambiato interamente la faccia delle cose umane: esso ci ha fatto conoscere il Regno dei Cieli, o quella perfetta Repubblica degli Spiriti che merita il nome di Città di Dio, di cui ci ha rivelato le mirabili leggi; Egli solo ci ha fatto vedere come Dio ci ama, e con quale perfezione ha provveduto a tutto ciò che ci riguarda; che mentre ha cura dei passerotti, non trascurerà le creature ragionevoli che Gli sono infinitamente più care; che tutti i capelli della nostra testa sono contati; che periranno il cielo e la terra piuttosto che la parola di Dio, e piuttosto che sia mutato ciò che riguarda la nostra salvezza; che Dio ha più cura della minore tra le anime intelligenti che di tutta la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere quelli che possono distruggere i corpi, ma che non potrebbero nuocere alle anime, poiché Dio solo le può rendere felici o infelici; e che le anime dei giusti sono in mano Sua, al riparo da tutte le rivoluzioni dell'universo, non potendo alcuna cosa agire su di esse tranne Lui stesso; che nessuna delle nostre azioni è dimenticata; che di tutto si tiene conto, persino delle parole inutili, persino d'una cucchiaiata d'acqua bene impiegata; che i giusti saranno come Soli, e che né i nostri sensi né il nostro spirito hanno mai gustato nulla che possa avvicinarsi alla felicità che Dio prepara a coloro che Lo amano».



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