La
prima idea che tutti hanno di medico, pur variando da soggetto a soggetto,
rimane quella di un individuo preposto ad un lavoro di routine, che
si occupi di prescrivere farmaci, diagnosticare malattie e studiare
terapie adeguate in base alla propria specializzazione.
Se poi volessimo
pensare all’ospedale, ci verrebbero in mente lunghi corridoi,
infermiere e dottori in camice bianco, gli orari che regolano i pasti,
le pulizie degli ambienti, i cambi delle lenzuola, gli esami e le
visite degli specialisti.
Le sale soperatorie poi, sono ambienti dove vengono rispettate ferree
norme igieniche ed ognuna di esse è adibita in maniera particolare
al tipo di intervento di cui il paziente necessita.
Per parlare della grande anima che è stata il Dottor
Schweitzer, dobbiamo accantonare questo tipo di immagine
e prepararci ad accogliere un nuovo modo d’intendere l’arte
della scienza medica.
Un primo passo in questa direzione sta nel ricordarsi che la
Vera Medicina è ciò che allevia e lenisce i mali dell’Anima,
ed attraverso essa, il corpo ne trae autentico e sicuro beneficio.
Albert
Schweitzer nasce il 14 gennaio 1875 a Kaysersberg, nell’Alta Alsazia
(allora territorio tedesco), figlio di un pastore protestante.
Si dimostra sin da bambino un ragazzo timido, sensibile e portato all’introspezione;
scriverà in proposito, nelle sue memorie:
“Ricordo di aver sempre sofferto a causa della grande
miseria che vedevo nel mondo.
Non ho mai conosciuto la gioia di vivere spontanea, propria della fanciullezza,
e penso che molti bambini si sentano così, anche se spesso, visti
dall’esterno, sembrano completamente felici e senza preoccupazioni.
Ciò che mi faceva più soffrire era vedere dei poveri animali
costretti a sopportare così tanto dolore e tante privazioni.
La vista di un cavallo vecchio e zoppicante, trascinato da un uomo mentre
un altro lo colpiva con un bastone mentre veniva portato al mattatoio
di Colmar, mi perseguitò per settimane”.
Il padre, Ludwig Schweitzer, durante l’infanzia di Albert, esercita
il proprio ministero nel villaggio di Gunsbach. Il destino ha voluto
che ancora oggi, come allora, in questa chiesa si celebrino due culti,
cattolico e protestante, in lingua francese e tedesca.
Questo alternarsi ad orari regolari, di differenti confessioni religiose
nella più totale armonia, spingerà Albert nelle sue future
riflessioni e rimembranze a dire:
“Da questa chiesa aperta ai due culti ho ricavato
un alto insegnamento per la vita: la conciliazione”,
aggiungerà in seguito che, “Le differenze tra
le Chiese sono destinate a scomparire. Già da bambino mi sembrava
bello che nel nostro paese cattolici e protestanti celebrassero le loro
feste nello stesso tempio”.
Sin dai nove anni, accompagna i servizi liturgici del padre alla tastiera
dell’organo.
L’amore autentico per la musica sacra e barocca, rimarrà
per tutta la sua vita; adulto si distinguerà come organista di
talento ed interprete d’eccezione delle opere di Johann Sebastian
Bach; terrà concerti in tutta Europa.
La
sua propensione allo studio di Bach lo porta a formulare una tesi, al
tempo innovativa, ed oggi proprio grazie a lui scontata, che afferma
la grande analogia fra i testi poetici in relazione alla composizione
musicale.
“Che cos’è Bach per me? E’ un consolatore.
Egli mi dà fiducia che quanto è realmente vero, nell’arte
come nella vita, non può essere ignorato e soffocato”.
Fornirà una nuova rivalutazione dell’opera bachiana, approfondendone
il linguaggio musicale e simbolico, fino a definirlo come autentico
poeta e pittore di nuovi orizzonti dello Spirito.
Egli scrive un testo: “J. S. Bach, le musicien poète”,
saggio che viene pubblicato nel 1905, ampliato nel 1908 (ediz. Tedesca)
ed oggi elemento di studio per coloro che si dedicano con interesse
allo studio approfondito della musica. La traduzione italiana è
del 1962.
Nel 1899 si laurea in filosofia, la sua tesi verterà sull’opera
di Immanuel Kant ed il suo modo d’intendere la religione; un pensiero
per molti, ancora oggi, scomodamente illuminista, ma Albert Schweitzer
saprà uscire dalla consuetudine e andrà, per il resto
della sua intensa vita, diritto all’essenza delle cose a discapito
del pensiero comune.
Nel 1900 ottiene anche il Dottorato in Teologia; nel 1903 è preside
del Collegio di Strasburgo dove insegnerà e predicherà.
La
spinta interiore lo porta ad un filantropico trasporto verso gli altri,
ad un Amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi,
in qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà.
Grazie a questi nobili sentimenti decide, nel 1905, d’iscriversi
alla facoltà di medicina a Strasburgo, col preciso intento di
servire i bisognosi; nel frattempo conosce la sua futura moglie, Héléne
Bressau, che lo seguirà ovunque con amorevole premura.
Nel 1911 ottiene la laurea, con specializzazione in malattie tropicali;
nel 1912 si sposa e subito cominciano i preparativi per l’Opera.
Luogo di destinazione della missione sarà Lambarènè,
nel Gabon, Africa equatoriale francese.
Da principio chiede aiuto ai missionari mettendosi gratuitamente a loro
completa disposizione. L’aiuto gli viene però negato, a
causa delle “strane” idee che egli ha di Gesù: quella
convinzione illuminata che la vera Religione è da trovarsi nella
Sostanza, non nel rito.
“Gli osservanti più stretti fecero resistenza.
Si decise di sottopormi ad un esame sulla Fede.
Non accettai, motivando il mio rifiuto col fatto che Gesù, chiamando
i suoi discepoli, non pretendeva altro se non che volessero seguirlo”.
Riesce comunque ad ottenere un appoggio logistico, “Quando
assicurai che volevo fare solo il medico, e per tutto il resto sarei
stato muto come una carpa, allora si tranquillizzarono”.
Albert ricava fondi presso amici e parenti, attraverso donazioni spontanee,
organizzazioni di beneficenza e facendo concerti. Quest’ultimo
sarà il modo più proficuo utilizzato dal dottor Schweitzer
per la raccolta di sovvenzioni per l’autofinanziamento dell’ospedale.
Tra
gli alberi della foresta ha così inizio la faticosa edificazione
della clinica, che costruisce letteralmente con le sue mani, alternando
il lavoro di medico a quello di operaio e carpentiere.
L’aiuto della gente del luogo non si fa attendere, ma con essa
arriva anche il grande flusso dei bisognosi di cure e di attenzioni.
Le patologie sono le più disparate; il primo consulto medico
avviene in un pollaio che a breve diverrà sala operatoria; per
il resto, povere baracche di paglia, legno e fango, sorgono come stanze
di degenza, fino a formare un piccolo villaggio ai margini del fiume.
Il
grande rispetto per la vita e la cultura locale, spinge il dottor Schweitzer
a stravolgere le regole della medicina occidentale. Egli infatti ritiene
che in Africa, un ospedale impostato secondo i criteri europei, non
avrebbe alcun senso: occorre curare gli ammalati secondo le loro usanze,
per farli sentire a proprio agio e disporli in una condizione favorevole
alla pronta guarigione.
I pazienti arrivano da ogni parte, risalendo il fiume con le canoe,
ed insieme ad essi le loro famiglie che, svolgendo il lavoro e la vita
quotidiana per tutta la durata del ricovero, vivono nelle baracche insieme
agli infermi, che vengono divisi per etnie e affezioni.
Il dottor Schweitzer svolge qui un’opera di autentico apostolato,
mettendo in pratica le Leggi del Vangelo, ponendosi al completo servizio
dei poveri.
A causa dello scoppio della prima guerra mondiale, Albert ed Héléne
sono costretti ad abbandonare la struttura e l’Africa, perché
sono deportati in Francia, in qualità di nemici!
L’esperienza della prigionia minerà per sempre la salute
della moglie. Nel 1924 Schweitzer, dopo aver fatto numerosi concerti
in Europa per raccogliere nuovi fondi, tornerà senza di lei in
Gabon.
Nel frattempo la sua opera di scrittore e saggista corre parallela a
quella di medico; scrive libri come - Ai bordi della foresta, Le
religioni mondiali e il cristianesimo, Filosofia della civiltà,
Cultura ed etica e Ricordi della mia infanzia.
Tornato a Lambarènè, con rinnovato vigore ricostruisce
la struttura e la amplia rispetto alla precedente, mantenendo però
lo stesso principio di accoglienza.
Le
foto dell’epoca lo ritraggono con i lunghi baffi all’insù,
in maniche di camicia e casco coloniale, mentre lavora con i contadini,
con gli operai, oppure nell’intento di visitare un paziente in
veste di medico. L’aria è austera e lo stile di vita sobrio;
si nutre quasi esclusivamente di frutta e verdura; il suo fisico è
temprato dal lavoro e tenacemente resistente alle malattie.
Schweitzer non spreca niente: le lettere che invia nella fitta corrispondenza
o le bozze dei suoi libri vengono scritte sul retro delle buste, ai
bordi di libri o delle bolle di consegna merci, in una calligrafia minuta
ed essenziale.
La sua convinzione di non voler dipendere da finanziamenti di enti pubblici
che, vista la fama acquisita, cominciano a farsi avanti, lo spinge a
rientrare di tanto in tanto in Europa e proseguire i suoi concerti per
la raccolta dei fondi.
La società Bach di Parigi gli regala un pianoforte verticale
con pedaliera, col quale egli può suonare, nelle calde ed umide
notti illuminate dalla luna africana, la poetica musica che egli sempre
ha amato e che dalle silenziose capanne si spande e si perdeva nel folto
della foresta, sino ai piedi del fiume che ne lambisce i margini.
Proprio dalle sue profonde riflessioni egli estrapola la sua teoria
filosofica, che concretizza nell’espressione “Rispetto
per la Vita”.
Visione nella quale chiarisce il fatto che il progresso umano, tecnologico
e sociale, deve essere accompagnato di pari passo al progresso etico
e morale.
Questo
innovativo modo d’intendere l’esistenza nel suo complesso;
la capacità di rimanere sorpresi e colmi di ammirazione di fronte
al Creato, di considerare tutto “Vita”, è il mezzo
per ritenere ogni cosa degna di rispetto, mutando così i nostri
comportamenti, capovolgendo gli atteggiamenti sbagliati, divenendo più
profondi nell’analizzare il mondo attorno a noi ed agendo di conseguenza.
Occorre riflettere sulla propria esistenza e capirne pienamente il significato.
Ogni azione deve essere il risultato di un pensiero a pro degli altri
e in Armonia con la Causa Prima della Vita.
“Solo una parte irrilevante delle immense crudeltà
commesse dagli uomini, può essere ascritta ad istinti efferati.
La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad
abitudini consolidate. Le radici della barbarie quindi, sono più
diffuse di quanto non siano forti. Ma verrà il giorno in cui
l’inumanità, protetta dalle abitudini e dalla superficialità,
soccomberà di fronte all’umanità difesa dalla riflessione.
Lasciateci lavorare per far sì che questo giorno arrivi
”.
Ognuno di noi deve quindi lavorare per un preciso scopo, per il nobile
ideale del Bene universale, capendo che tutti possiamo fare qualcosa
per gli altri, anche nella quotidianità, certi che questi benefici
effetti si ripercuoteranno come aria pura, sul mondo intero.
“Ciò che più di tutto fa di un essere umano
un vero uomo è la sua empatia per tutte le creature viventi.
Quando aiuto un insetto in difficoltà non faccio altro che cercare
di espiare una parte delle colpe dovute ai crimini [degli esseri umani]
contro gli animali”.
Ogni benevolo gesto che noi possiamo compiere, anche quello che apparentemente
sembra insignificante, ha la sua precisa importanza e il compito fondamentale
di ripristinare l’Ordine essenziale per la Vita di tutti gli esseri.
“L’etica del rispetto per la vita esige che
ognuno, in qualche misura, agisca come uomo verso gli altri uomini.
Quelli che, nella loro attività, non hanno la possibilità
di prodigarsi in tale modo e non posseggono altro da poter donare…
devono sacrificare un po’ del loro tempo libero, per quanto scarso
esso sia”.
L’applicazione di queste norme, è per Schweitzer, costante
ed abituale nelle sue giornate. A
Lambaréné regna la fratellanza e l’uguaglianza;
persone di colore, di diverse religioni ed etnie, convivono nella più
totale armonia, e questa forma di rispetto viene estesa anche ad animali,
fiori e piante.
Ogni momento egli, con l’esempio e le parole, fornisce occasioni
di riflessione. Va anche detto che il dottore, nel suo ospedale, mantiene
uno spiccato senso dell’umorismo e, con questa intenzione, dà
un insegnamento ad un bambino di dieci anni: “Questa è
la mia formica personale. Ti riterrò responsabile se le romperai
le zampe”.
Sentirsi responsabili del dolore del nostro prossimo e voler agire per
alleviarne le sofferenze. Questo è l’impulso che tutti
noi dovremmo avere, consapevoli del fatto che ognuno di noi ha una missione,
ed è personalmente coinvolto nella riuscita della stessa.
“Nostro dovere è prendere parte alla vita e
averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta
il comandamento più importante nella sua forma più elementare.
Ovvero, espresso in termini negativi: "Non uccidere".
Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo
a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza
riflettere, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende
le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro
prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni”.
Egli
ribadirà la tesi (ancora attuale) secondo la quale, squilibri
economici e politici che perdurano tutt’oggi, sono l’autentica
causa delle guerre.
Nel
1953 gli viene conferito il premio Nobel per la Pace. La sua fama è
così universalmente consacrata. Il rispetto per la vita che sempre
a predicato, lo spinge a dire in quell’occasione:
“Lo Spirito dell’uomo non è morto. Continua
a vivere in segreto... È giunto a credere che la compassione,
sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere
la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli
esseri viventi, e non solo gli esseri umani”.
Parole che danno nuova speranza e fiducia alle future generazioni. Ribadirà
sempre che l’uomo ha la possibilità reale di agire in favore
della vita, rapportandosi con il prossimo e la madre terra. Molti medici
decidono di seguire il suo esempio e di dedicarsi agli altri.
Nel 1954, con i fondi del premio, Schweitzer riesce ad erigere quello
che è sempre stato un suo desiderio: un ospedale per lebbrosi
che egli chiamerà emblematicamente “Villaggio della
Luce”.
“Questa che vedete è la mia Religione. Il mio
ospedale è povero, ma è ricco di qualcosa che voi non
vedete, perché ne siete già ricchi: la libertà…”.
Sempre
di più, il medico musicologo e missionario, riflette sui problemi
della società attuale, con le sue numerose contraddizioni e gli
equilibri precari ed asimmetrici che la contraddistinguono.
“Qual è la natura di tale degenerazione, imperante
nella nostra civiltà, e perché si è creata? ...
Ciò che rende la nostra civiltà un disastro è
il fatto che sia molto più sviluppata materialmente che spiritualmente.
C’è uno squilibrio... Ora i fatti ci invitano a riflettere.
Ci dicono con parole terribilmente crude che una civiltà che
si sviluppa solo dal lato materiale e non nella propria sfera spirituale...
si avvia alla catastrofe.
L’etica del rispetto reverenziale per la vita ci spinge a condividere
quanto ci turba e a parlare e ad agire insieme senza paura, per alleggerire
la responsabilità di ciò che proviamo. Ci mantiene uniti
nella ricerca di un’opportunità per aiutare in qualche
modo gli animali, per risarcirli dell’immensa miseria arrecata
loro dagli uomini e così per un momento fuggiamo dall’incomprensibile
orrore dell’esistenza.
Devo interpretare la vita che mi circonda nello stesso modo in cui interpreto
la mia.
La mia vita è molto significativa per me. La vita che mi circonda
deve essere significativa per se stessa. Se mi aspetto che gli altri
rispettino la mia vita, io devo rispettare quella degli altri, per quanto
strana mi possa sembrare. E non solo la vita umana, ma la vita di tutti
gli esseri: le forme di vita di livello superiore al mio, se esistono;
quelle di livello inferiore, che so che esistono.
L’etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata
finora limitata ai rapporti tra uomini.
Ma questa etica è limitata. Abbiamo bisogno di un’etica
più vasta, che includa anche gli animali.
L’uomo è veramente etico quando rispetta l’obbligo
di aiutare tutte le forme di vita che è in grado di aiutare,
e quando, per evitare di danneggiare un essere vivente, cambia i suoi
progetti.
Non chiede in che misura questo o quell’essere vivente meriti
simpatia, né se questo sia capace di provare sentimenti. Per
un uomo etico la vita è sacra per se stessa. Se, dopo un temporale,
quest’uomo esce in strada e vede un verme smarrito, penserà
sicuramente che quel verme morirà disidratato al sole se non
penserà a dargli immediatamente del terreno umido dove poter
strisciare, perciò lo porta via dal mortale selciato di pietra
e lo deposita nell’erba verde. Se, passando, dovesse vedere un
insetto caduto in una pozza, perderebbe un po’ del suo tempo a
cercare una foglia o uno stelo su cui l’insetto potrà arrampicarsi
e così salvarsi.
L’uomo, divenuto un essere pensante, sente il dovere di dare ad
ogni voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale per la vita che
dà a se stesso. Percepisce tale vita altra nella propria.
L’uomo pensante deve opporsi a tutte le pratiche crudeli, per
quanto profondamente radicate nella tradizione e circondate da un’aureola
di santità.
Nel momento in cui abbiamo la possibilità di scegliere, dobbiamo
evitare di causare tormento e danno alla vita altrui, perfino quella
della più piccola creatura; fare altrimenti significa rinunciare
al nostro essere uomini e sobbarcarci una colpa ingiustificabile.
Destino di ogni verità è quello di essere oggetto di ridicolo
la prima volta che viene pronunciata.
In passato venne considerato pazzesco supporre che gli uomini di colore
fossero esseri umani come gli altri e che dovessero essere trattati
come tali. Ciò che in passato era una follia ora è una
verità riconosciuta. Oggi proclamare il rispetto costante per
tutte le forme di vita, nell’ambito di una richiesta seria di
un’etica razionale, viene considerata un’esagerazione.
Si sta però avvicinando il giorno in cui la gente sarà
stupita che la razza umana sia vissuta tanto tempo prima di capire che
nuocere distrattamente alla vita è incompatibile con una vera
filosofia morale.
L’etica è, nel senso più vasto del termine, un senso
di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita”.
Il
4 settembre 1965, alle 23:30, Albert Schweitzer muore, all’età
di 90 anni.
L’ospedale di Lambaréné è oggi uno dei più
importanti ed avanzati di tutta l’Africa, ma il lascito che egli
dona all’intera umanità va ben oltre: è il suo esempio,
la sua costanza.
La certezza con la quale ha agito, la conferma che l’Amore donato
altruisticamente, germoglia e fiorisce estendendosi a tutte le forme
viventi, non ha prezzo, ed una volta trasmessa, perdura nel tempo.
Con le sue tre lauree, gli studi di musica, la sua abilità di
organista e di medico, la vita avventurosa, il suo impegno per i temi
sociali, morali ed ecologici, il dottor Schweitzer ci fornisce la chiave
per superare la nostra inquietudine, condensandola in un insegnamento:
“L’uomo non troverà la Pace interiore
finché non imparerà ad estendere la propria compassione
a tutti gli esseri viventi”.