Giovanni
Papini nacque a Firenze nel 1881 da Luigi ed Erminia Cardini. Il padre,
ex garibaldino d’Aspromonte e del Volturno, repubblicano convinto,
impose al figlio un’educazione atea e anti-clericale, ma la
madre riuscì a farlo battezzare di nascosto.
«Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza».
Così l’autore descrisse la sua infanzia fatta di solitudine
e di emarginazione.
«Fin da ragazzo mi sono sentito tremendamente solo e diverso
– né so il perché. Forse perché i miei
eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo
soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei
o sette anni e che tutti i parenti l’accettarono».
L’unica consolazione gliela diedero i libri, da sempre amati
e desiderati, i soli mezzi che poterono saziare la sua innata brama
di sapere.
Dopo che ebbe conquistato “rigo per rigo il mistero del sillabario”
non provò piacere più grande del leggere.
Nella piccola biblioteca di casa vi erano un centinaio di volumi;
uno di essi riportava “L’inno a Satana” del Carducci,
un brano molto apprezzato dal piccolo Giovanni che già nutriva
«più amore per l’Angelo ribelle che per il
maestoso Vecchio che sta nei cieli». Per lo scolaretto
Papini, Iddio non era mai morto perché non era mai stato vivo
nella sua anima.
A quindici anni ottenne la tanto anelata tessera della biblioteca
pubblica; ora poteva tuffarsi in quel mare di sapienza racchiuso nelle
migliaia di testi ai quali aveva libero accesso. Gli sembrava di aver
messo piede nel giardino dell’Eden.
La sua psiche irrequieta ambiva ad abbracciare per intero la conoscenza
di tutti i tempi e di ogni luogo.
«Volevo soltanto sapere, sapere, sapere tutto».
Fin da allora era tra coloro per cui il poco o la metà non
contava. «O tutto o nulla!»
Consultando varie enciclopedie vi trovò molte risposte ma si
accorse che non ce n’era una che fosse veramente completa, quindi
decise di comporne una lui stesso.
Si cimentò nell’impresa di redigerla superiore a tutte,
un lavoro nuovo con tutte le scienze, storie e letterature del mondo.
Vi dedicò due mesi delle vacanze estive, lavorando giorno e
notte. Giunto alla sillaba “Ad”, capì che non poteva
essere l’opera che lui aveva immaginato, non era sufficiente
un fardello di nozioni per rinchiudere tutto lo scibile. Pensò
allora alla storia, cominciò con gli antichi egizi, passò
al popolo d’Israele ma la complessità di ogni analisi
lo travolgeva. Copiò intere pagine della Bibbia in ebraico
e confrontò le diverse traduzioni per stabilire se il Popolo
Eletto fosse stato monoteista fin dal principio o in seguito a qualche
avvenimento…
Ma anche la “Storia universale” non ebbe compimento, adesso
era la letteratura ad appassionarlo. Pensò a dei tomi con la
comparazione della cultura letteraria mondiale, poi ripiegò
su quella latina e spagnola e infine proclamò l’ennesima
rinuncia.
Ogni centesimo donatogli dai genitori fu speso per comprare libri,
quaderni e inchiostro. Fu denaro rubato al pane quotidiano di cui
si privarono lui e la madre (la sola che lo assecondasse), già
scarso in quella famiglia poverissima. Però non si lamentò
mai della miseria, più avanti disse che aveva costretto il
suo spirito «nel laminatoio del dolore che lo rese più
pulito, più affilato, più degno».
Diciottenne cominciò a domandare alla vita le sue ragioni ma
non ebbe subito risposte esaurienti; tuttavia non riuscì ad
«abbandonarsi alla bestiale accettazione della vita».
Continuò così il suo anticonformismo ma principiò
anche la ribellione:
«Così accadde che mi affermai… nella negazione
della vita. La mia risposta alla maligna ingiustizia della sorte e
alla silenziosa inimicizia degli uomini fu la persuasione dell’infinita
vanità del tutto, della canaglieria congenita e dell’infelicità
indistruttibile del genere umano».
La sua critica sferzante si espresse a trecentosessanta gradi: con
due suoi compagni fondò una specie di congrega letteraria che
si chiamava “Trinità”. Il regolamento ordinava
che ciascuno, a turno, dovesse sostenere una tesi e scrivere una memoria
che fosse letta e discussa dagli altri ai quali era imposto, pena
la vergogna, d’esservi contrari. Quando fu la sua volta compilò
in più di cento pagine una stroncatura cavillosa e violenta
dei “Promessi Sposi”:
«Codesto libro l’odiavo fin da quando, a scuola, mi
era toccato, per un anno intero, far l’analisi logica e grammaticale
delle mediocri disgrazie di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Quella
contadina senza passione, quel prete vigliacco, quel frate che aveva
sempre pronta sotto la tonaca la predica o la benedizione, quell’Innominato
che fa il terribile sul serio e poi si lascia sconvolgere dai singhiozzi
di una plebea bigotta e umiliare dalla scaltra oratoria di un santo,
mi seccano o mi fanno rabbia. Non sentivo tutto quel che d’arte
pura e grande v’è in molte pagine di quel libro troppo
famoso; mentre quell’aura pietosa e cristiana che vi spira dentro,
quella acquiescenza servile ai voleri del Signore Iddio… mi
faceva rivoltare con tutto il fuoco del mio spirito satanico e carducciano».
I suoi compagni rimasero così allibiti che decisero di sciogliere
l’associazione.
Attorno ai vent’anni, Papini iniziò a scandagliare gli
argomenti della filosofia, i più diversi. Tra questi ce ne
fu uno, il “monismo” che più degli altri lo colpirono.
«Per me cotesto monismo, codesta fede nell’unità
profonda e sostanziale di tutte le cose non era soltanto una parola,
una frase, una formula. Io la sentii e la vissi in me, in ogni momento
della vita, come si vive una passione e un amore. Tutte le cose diverse
erano davvero per me una cosa sola; la sostanza, sottostrato del variabile
tutto, non era un’invenzione mentale, ma la realtà stessa».
Era però solo un rapido bagliore in una lunga notte oscura,
fatta di invettive blasfeme.
La sua fervida intelligenza cominciò ad avere degli ammiratori
quando, nel 1903, pubblicò il primo numero della rivista “Leonardo”.
Vi collaborò anche Giuseppe Prezzolini e divenne il punto di
riferimento del pragmatismo italiano.
Negli anni successivi, intrapresa l’attività di insegnante,
instaurò contatti con molti filosofi europei tra i quali Bergson,
Pareto e James.
Le pubblicazioni si moltiplicarono: “Il crepuscolo dei filosofi”
e “Il tragico quotidiano” nel 1906; “Il pilota cieco”
(1907, anno del suo matrimonio con Giacinta Giovagnoli). Curò
la collana “Cultura dell’anima” e “Scrittori
nostri”; fondò “La Voce” (1908, nasce la
figlia Viola); “L’altra metà” e la rivista
“L’Anima” che sarebbe durata un anno (1911); “La
vita di Nessuno”, “Parole e sangue” e “Le
memorie d’Iddio” (1912).
Una parentesi va aperta su quest’ultimo titolo, apice di una
caustica protesta anticristiana.
In esso vi si legge: «Uomini: diventate atei tutti, fatevi
atei subito! Dio stesso, il vostro Dio Iddio vostro figlio, ve ne
prega con tutta l’anima sua!» È la messa in
scena del personaggio di Dio che si augura la morte della fede e quindi
la propria fine, pentito com’è di aver creato tanto male
nel mondo. Dio esiste solo perché gli uomini credono in Lui,
e alla morte dell’ultimo credente anch’Egli scomparirà.
Il Papini esternò così la sua incomprensione per la
vita con inaudita acredine.
Due anni dopo, sulla rivista “L’Acerba”, da lui
concepita, scrisse un articolo ancora più tagliente, intitolato
“Cristo peccatore”, che gli valse un processo (dal quale
fu assolto) per oltraggio alla religione.
Nel 1913 uscirono “Un uomo finito” (la sua autobiografia),
“24 Cervelli”, “Sul Pragmatismo”. Nel 1914
e ‘15: “Buffonata”, “Cento pagine di poesia”,
“Maschilità”, “La paga del soldato”.
Non partecipò alla prima guerra mondiale perché fu riformato
a causa della sua forte miopia.
Tra il 1916 e il 1919 pubblicò “Stroncature”, “Opera
prima”, “Polemiche religiose”, “Giorni di
festa”, “Testimonianze”, “L’uomo Carducci”,
“Le varie Italie” (in collaborazione con Ardengo Soffici)
e “L’Esperienza futurista”.
Fu nei mesi successivi al termine della Grande Guerra che nell’anima
di Giovanni Papini iniziò un travaglio che lo avrebbe condotto
ad una repentina quanto profonda conversione al cristianesimo.
Forse a causa degli orrori del conflitto bellico, nella sua apparente
insensibilità si fece strada un moto travolgente di rinascita;
folgorato dallo Spirito, comprese verità prima avversate con
violenza.
«Ero spinto misteriosamente a fare qualcosa per gli uomini,
per tutti. Mi sembrava di aver già promesso e che fosse giunta
l’ora improrogabile di mantenere.
Avevo distrutto: dovevo ricostruire. Avevo odiato gli uomini, dovevo
amarli, sacrificarmi per loro, renderli simili a Dei.
Altrimenti a che pro essere venuto sulla Terra? A che fine aver rinnegato
crudamente il passato?
Il sapere solo non mi bastava più: volevo agire.
Uccidere, recidere, estirpare tutto quel che c’era ancora di
sottoumano nell’uomo per renderlo soprumano – non più
uomo. Avvicinarlo a Dio, farne la divinità vera, innumerevolmente
vivente nello spirito e per lo spirito.
Qual è la parte più alta, più nobile e pura dell’uomo?
L’anima. Volendo agire sull’uomo in senso innalzante bisognava
agire sull’anima. Soltanto nella direzione spirituale è
possibile sperare in un cambiamento radicale di rotta, in un rivolgimento
totale degli esseri e dei valori.
Se qualcosa di nuovo e di grande uscirà nella vita dell’uomo,
uscirà dallo spirito; se vogliamo perfezionare l’uomo
bisogna render perfetto lo spirito. Tutti i valori sono in lui, e
tutte le ragioni della vita esterna e tutti i motivi degli atti. Se
egli cambiasse ad un tratto, tutta la vita cambierebbe. Tutte le questioni
-nazionali, sociali, morali- sono, in fondo, nient’altro che
questioni d’anima, questioni spirituali. Mutando l’interno
si muta l’esterno; rinnovando l’anima si rinnova il mondo».
“Storia di Cristo” fu la sua
prima opera dopo la conversione e fu un successo di vendite in Italia
e all’estero, con varie traduzioni.
La sua produzione letteraria non ebbe mai posa e ricordiamo: “Antologia
della poesia religiosa italiana”, “Pane e vino”,
“Gli operai della vigna”, “Sant’Agostino”,
“Gog”, “La scala di Giacobbe”, “Ritratti
italiani”, “I nipoti d’Iddio”, “Dante
vivo”.
Aderì al fascismo, fu Accademico d’Italia e fondò
un centro di studi sul Rinascimento.
Nel 1943, nel convento della Verna, divenne terziario francescano.
Si sospettò della sua fama mai diminuita come una conseguenza
dell’adesione al regime di Mussolini, ma anche dopo la guerra
continuò a far parlare di sé come scrittore acuto e
vivace.
Apprezzati furono le “Lettere agli uomini di papa Celestino
VI”, “Vita di Michelangelo nella vita del suo tempo”,
“La spia del mondo”, “La felicità dell’infelice”,
“Il diavolo”.
Postumi appariranno “Giudizio universale”, “La seconda
nascita” e “Diario”.
Giovanni Papini morì l’otto luglio 1956, nella sua città
natale. Il suo corpo si spense ma siamo certi che il suo Spirito viva
in Cristo perché compì quella rinascita fondamentale
per la vita dell’uomo che lo ha condotto ad una fede “ragionata”
ma, appunto per questo, più viva e consapevole.
Si pentì così tanto del suo passato di negatore della
Verità che ordinò alla figlia Viola di recuperare tutte
le copie delle sue sacrileghe “Memorie d’Iddio”
perché le bruciasse.
Temiamo che Papini sia tuttora un personaggio misconosciuto ai più;
i suoi scritti languono dimenticati, i tratti biografici delle varie
enciclopedie (anche quelle letterarie e filosofiche) sono scarni e
tutti somiglianti, come se nessuno si fosse preso la briga di scrutare
la profondità della sua Opera.
Giovanni Papini lo si può capire solo con la Luce dello Spirito,
tralasciando l’aspetto formale, che inganna critici e studiosi,
per trarre ispirazione dalla sua verace trasformazione da bestemmiatore
a seguace di Gesù.
Riporto qui di seguito, a conclusione del nostro sintetico profilo,
un breve componimento le cui parole suonano come una melodia dolce
e amorevole. Possano diventare una tenera carezza a noi anime doloranti
e desiderose di fare ritorno alla Dimora Celeste!
Abbiamo
bisogno di Te
Gesù,
tutti hanno bisogno di Te
anche quelli che non lo sanno.
E quelli che non lo sanno
assai più di quelli che sanno.
L'affamato
si immagina
di cercare il pane
e ha fame di Te.
L'assetato crede di volere l'acqua
e ha sete di Te.
Il malato s'illude di cercare la salute
e il suo male è l'assenza di Te.
Tu
sai quanto sia grande
per me e per tutti noi
il bisogno del Tuo sguardo
e della Tua parola.
Tu che fosti tormentato
per amore nostro
ed ora ci tormenti con tutta la Potenza
del Tuo implacabile Amore.