Il
pellegrino dell’Assoluto
È
una delle più potenti e sconcertanti figure della recente letteratura
francese.
Nacque a Fènestreau, presso Périgueux l’11 luglio
1846 e morì a 71 anni a Bourg-la-Reine il 3 novembre 1917.
Postosi egli stesso al bando della società, conobbe una miseria
così atroce da averne condizionata non solo la vita, ma anche
gli scritti che la sua genialità produceva senza tregua, in una
prosa potente, tagliata a colpi d’ascia, illuminata da metafore
e nutrita di profonde conoscenze bibliche.
Ispirato da un cattolicesimo mistico, brutalmente ribelle ad ogni forma
di ipocrisia, tutto proteso verso l’umanità sofferente,
nemico acerrimo del denaro e del progresso, intransigente sulle virtù;
la sua vita è il più grande dei suoi romanzi, ricco di
vicende strane e conturbanti.
Léon Bloy visse la sua infanzia in un clima di freddezza e di
silenzio tra le incomprensioni del padre e la scarsa educazione ricevuta
da sua madre.
Dopo aver frequentato le elementari presso le “Scuole cristiane”,
venne inviato in collegio dove non compì gli studi liceali perché
fu espulso a quattordici anni per la sua condotta irrequieta, indisciplinata
e sommamente ombrosa.
Fu costretto a lavorare presso l’ufficio del padre ma, grazie
al suo ingegno e alla passione per lo studio, ebbe modo di formarsi
una vasta conoscenza degli scrittori latini, dei Padri della Chiesa,
dei classici, della storia e dei grandi personaggi come Colombo e Napoleone,
dilettandosi anche a dipingere, a scrivere, a comporre tragedie; imparando
così in due anni, “da solo, quasi senza sforzo [...]
quello che il rimbecillito dispotismo di tutti i prefetti della terra
non avrebbe potuto insegnargli in mezzo secolo” (Le désespéré
– Ouvres de Léon Bloy, vol.III).
Si trasferì a Parigi nel 1864 dove, tra tutti gli espedienti
per sopravvivere, si dette anche all’accattonaggio. Dopo aver
attraversato un periodo di profonda crisi religiosa, in cui l’odio
per Gesù divenne l’unica sua preoccupazione. Dopo una serie
di avventure e lunghe ore di esasperazione, di apatia e di miseria,
fece l’incontro più importante e risolutivo della sua vita.
Nel
1867 conobbe Barbey d’Aurevilly che gli fece da maestro
e, sotto la sua guida amorosa e provvidenziale, con l’ausilio
anche di buone letture, si compì il suo rientro nel cattolicesimo
e come il figliol prodigo decise di cambiar vita.
Riprese la via cristiana impegnandosi ad afferrarne la spiritualità
più profonda.
Nel 1873 ritornò a Parigi e lì, negli ambienti letterari,
nelle redazioni dei giornali, nei circoli culturali, ebbe occasione
di conoscere molti uomini illustri.
Si dette al giornalismo ma la sua personalità ribelle ed energica
gli attirò l’antipatia e il disprezzo di molti.
Bloy non aveva mezze misure, ne “peli sulla lingua” e con
lo spirito assolutista dovuto alla sua sintesi religiosa e morale, si
espose irreparabilmente alle feroci critiche di molti scrittori e amici.
La conseguenza all’inasprirsi delle liti fu lo spezzarsi di molti
rapporti e legami cordiali.
Nel 1877 perse entrambi i genitori ma conobbe, in compenso, anche un
sacerdote e maestro, l’abate Tardif de Moidrey, da cui apprese
l’interpretazione dei simboli e che gli rivelò il messaggio
dell’apparizione di La Salette avvenuto qualche mese prima della
sua nascita.
Nel
frattempo continuò la stesura di alcuni suoi libri e, sempre
soffrendo, tra incontri dolorosi e indigenza estrema, si unì
a Jeanne Molbeck, dalla quale ebbe quattro figli: due maschi, che morirono
alcuni anni dopo, e due femmine.
Furono questi per lui i periodi di miseria e di solitudine, di crisi
fisiche ed intellettuali e di polemiche roventi.
Tuttavia ebbe la forza di terminare numerose opere come: “La
femme pauvre, Le mendiant ingrat, Je m’accuse, Exégèse
des lieux communs, Costantinople et Bysance, ect...” Testi
che ci rivelano il suo carattere violento e la sua anima profetica.
Gli ultimi scritti furono: “Le pèlerin de l’Absolut,
Jeanne d’Arc e l’Allemagne, Au seuil de l’Apocalypse
e Meditations d’un solitaire”. Essi sono una testimonianza
concreta di anelito ardente e di indomita fede.
Così nell’attesa e nella speranza, Léon Bloy si
preparò alla morte che, come già detto, nel 1917 troncò
la sua esistenza febbrile consacrata a Dio e alle anime.
Nonostante l’invalicabile incomprensione e la dura critica che
egli si era guadagnato da parte di molti, ebbe anche degli amici fidati
come Verlaine, Maeterlinck, Van der Meer, i coniugi Raissa e Jacques
Maritain.
Persino Bergson avrebbe indicato poi “questa mistica autentica
e radicale come la soluzione di fondo all’angoscia e al meccanicismo
del mondo d’oggi, tanto bisognoso –scriveva–
di un supplemento d’anima”.
Un autore come Bloy non è da giudicare per questo o quello sbaglio,
per questa o per quella volgarità. Al contrario, come Pégui,
egli va visto e compreso “con le sue passioni, i suoi errori,
le sue manchevolezze, ma anche con la sua fedeltà in tempi di
infedeltà, la sua giustizia in tempi di ingiustizia, la sua povertà
in tempi di corsa al denaro, con la sua speranza anche nelle ore della
disperazione, con la sua carica di ideale anche in tempi di compromesso
e di venalità”. Non per nulla “la sua figura
si erge come un invito ad una santa rivolta per la dignità e
la santità della vita”.
Disse di lui Raissa Maritain: “Egli è nato per questo,
per risvegliare nel mondo degli uomini il senso dell’Assoluto,
la passione di Dio, l’amore alle virtù evangeliche”.
Egli
ci avverte: “Voi mi giudicate umanamente senza badare
che io sono precisamente fuori da ogni punto di vista umano, e che in
questo sta tutta la mia forza. La verità lampante che si rivela
in tutti i miei libri è che io scrivo SOLO PER DIO”.
Egli si definisce infatti: “Pellegrino dell’Assoluto”
e “Testimone”.
Sconcerta
e non poco il suo vociferare aggressivo e spietato e, a volte, specialmente
verso i singoli, risulta esageratamente caustico. Ma rivolto all’ipocrisia
delle istituzioni e alla grande diffidenza del clero, che segue solo
superficialmente i detti del Cristo (“Beati coloro che hanno
fame e sete di giustizia, beati i poveri, beati coloro che piangono...”
e via dicendo), egli si sente di scagliarsi con tutta la sua indignazione
e la sua collera, tanto da somigliare più ad un guerriero d’altri
tempi, con la spada in mano che difende la volontà e la Legge
del suo Signore.
Il tono duro e le minacce non sono, in genere, la via più sicura
per convincere e convertire, ma per lui il messaggio della Vergine alla
Salette è determinante per l’imminenza dei “Nuovi
Cieli e la Nuova Terra” e dunque, perdere del tempo prezioso,
quando c’è tanta gente da salvare, equivaleva ad un mostruoso
delitto. Egli esigeva, per così dire, le conversioni immediate,
i ritorni istantanei e forse, usava la maniera forte, soltanto perché
tutti potessero arrivare prima.
Il bisogno irrefrenabile di restaurare il cristianesimo autentico, era
determinato dalla visione di un mondo che, a suo modo di vedere, sprofondava
di giorno in giorno in un mare di paganesimo e di incoerenza.
Per Bloy l’abbandono della Legge di Dio e l’indifferenza
verso il Cristo sanguinante sono la causa principale della rovina del
mondo.
Si può dire che tutta la sua opera in fondo, ruoti attorno a
questo tema.
Riportiamo qui alcuni suoi pensieri che danno, per chi ha orecchie
per intendere, la misura della sua profondissima anche se tanto
discussa spiritualità:
L’appassionato schiavo del dolore
Ogni
afflizione al corpo e all’anima è un male d’esilio.
Io
sono soprattutto un uomo di guerra, ma il mio furore si rivolgerà
soltanto contro i potenti, gli ipocriti, i seduttori di anime, gli avari
e sono straziato dalla pietà per gli oppressi e i sofferenti.
Non
è in potere di nessun uomo il non cercare il Paradiso, fosse
pure nella disperazione.
Il dolore non è il nostro fine ultimo, è la felicità
il nostro fine ultimo. Il dolore ci conduce per mano sulla soglia della
vita eterna.
L’uomo
che non soffre o che non vuol soffrire, è un figlio diseredato
dal Figlio di Dio che sposò il Dolore, perché solo colui
che accetta di soffrire può intravvedere la Pace della sua anima.
Non
accusatemi; voi credete che il sentimento religioso in me sia una particolare
forma di rivolta. E’ esattamente il contrario.
Per quanto folle possa sembrarvi, io sono in realtà, un obbediente
ed un tenero. E’ per questo che scrivo implacabilmente, dovendo
difendere la Verità e rendere testimonianza al Dio dei poveri.
Ecco tutto. Le mie pagine più veementi furono scritte per amore
e spesso con lacrime d’amore, in ore di pace indicibili.
L’amore impaziente
Il
mondo cristiano è stato fatto da uomini che si chiamavano Apostoli,
sui quali e nei quali era disceso il FUOCO di Dio... Oggi, invece, è
giudicato temerario prendere sul serio il Vangelo, cioè credere
nell’Assoluto del Vangelo.
Io
sono talmente nel pensiero dell’Assoluto che quando non mi parlano
in questo senso, mi sembra che non mi dicano proprio nulla e allora
non capisco. Quando mi dicono, per esempio, dando un calcio al Vangelo,
che è possibile essere discepoli di Gesù Cristo senza
lasciare tutto, io divento stupido all’istante.
Si
parte da Dio per tornare a Dio. Questo è l’unico movimento
che abbia un significato e una utilità.
Ho
tale fame e sete dell’Amore di Dio che conto i giorni come un
insensato. Ma una qualità dell’Amore è di essere
impaziente.
E’
vero solo ciò che è Assoluto.
Eccetto Dio, tutto mi è uguale.
Nulla è necessario, nulla, nulla, eccetto Dio.
Povertà: tenerezza di Dio
Dopo Gesù Cristo il popolo di Dio siamo tutti noi: io, il falegname,
il fabbro, l’impiegato, lo spazzino, il poeta.
Il popolo di Dio è tutto ciò che è povero, tutto
ciò che soffre, tutto ciò che è profondamente umile.
E’ l’immneso gregge nella solitudine, la moltitudine dei
cuori tristi alla ricerca del Paradiso.
Non
ho subito la miseria, l’ho sposata per amore, avendo potuto scegliere
un’altra compagna.
La
miseria è la mancanza del necessario.
La povertà è la mancanza del superfluo.
Più andremo verso Dio e più saremo uniti, cioè
avvicinati. Gli esseri umani non sono paralleli ma convergenti, e Dio
è il loro fuoco.
Ogni anima è un raggio della Divinità, da cui è
partita come da un sole e da cui un giorno deve essere riassorbita.
Nessuno
sa chi è maggiormente il suo prossimo, nessuno lo saprà
mai, se non nella Luce. Ed è una grazia immensa incontrare qua
e là, dopo infiniti dolori, qualche probabile fratello, qualche
supposto cugino del Paradiso.
Attendo
ancora Qualcuno.
Qualcuno di molto povero, molto sconosciuto e molto grande.
Qualcuno deve venire.
Qualcuno, che io sento galoppare sul fondo degli abissi, deve venire,
in modo inaudito...